Nei primi giorni dell’assedio di Irpin l’esercito ucraino ha tirato giù il ponte al confine meridionale della città per impedire ai tank ‘Z’ di sfondare e aprirsi la strada sulla capitale. Oggi quel ponte resta un monumento della guerra che si è combattuta qui sin dagli ultimi giorni di febbraio. Poche settimane dopo la ritirata dell’esercito di Mosca dall’area nord-occidentale dell’oblast di Kiev è stato realizzato un bypass stradale a fianco del viadotto per consentire il transito dei veicoli da e per il centro abitato della cittadina alle porte della capitale vittima del lungo assedio ordinato dal Cremlino.

Sul vecchio tracciato restano il furgone bianco rovesciato, la sede stradale implosa dentro il corso d’acqua scavalcato proprio dal ponte, le bandiere dell’Ucraina e un passeggino. Sotto le colonne di supporto della campata unica, il luogo dove i civili in fuga si sono protetti prima di mettersi al sicuro oltre la linea di difesa ucraina, c’è di tutto: effetti personali, vestiti, addirittura cassette delle munizioni. I rottami di quel ponte, tuttavia, rappresentano anche il simbolo del terrore. Sono ancora fresche le immagini dei civili in fuga, spaventati dai combattimenti in città, barcollare sulle assi di fortuna messe lì per guadare il fiume. Su quelle tavole fradice, a inizio marzo, sono passate anche Polina, sua madre e la sorellina di appena 2 anni: “È stato brutto scappare di sera in mezzo al bosco per arrivare fino al ponte – racconta la ragazzina di 14 anni che nasconde le emozioni dietro i suoi occhiali dall’ampia montatura – Faceva tanto freddo. Aveva nevicato e poi piovuto, a terra c’era fango gelato, si sprofondava. Usare la strada ci avrebbe messo in pericolo, perciò non restava che il fitto bosco. A ogni colpo di cannone mia sorella si metteva a piangere e strillare. Io non ho mai avuto paura dei combattimenti, temevo solo che mamma e mia sorella potessero essere ferite o, peggio, uccise. Io non ho paura della guerra, vorrei però chiedere solo una cosa alla Russia: perché ci avete fatto questo?”.

La settimana scorsa Polina e la sua famiglia sono tornati a Irpin dopo aver trascorso più di un mese da alcuni conoscenti a Zytomir: “La nostra casa non ha riportato danni gravissimi, i vetri si sono rotti tutti, ma dobbiamo essere felici perché a Irpin c’è chi la casa non ce l’ha più. Adesso devo solo pensare a finire la scuola, con lezioni a distanza, e niente altro”.

L’unico spazio di vita e di solidarietà in grado di supportare i cittadini rimasti a Irpin è il Bible Centre, una struttura di accoglienza che ogni giorno distribuisce aiuti. I carri armati russi sono arrivati fino a 200 metri da qui, ma il centro religioso è stato solo sfiorato dagli attacchi. Tra i 20 volontari che adesso lavorano senza sosta c’è anche Roman Ilnitzkyi. Anche lui ha una storia legata al ponte: “Sono stati dieci giorni drammatici, tra bombe dal cielo e attacchi di artiglieria, fino al 6 marzo quando io e mia moglie abbiamo deciso che lei e i figli, un maschio di 10 anni e una ragazza di 17 che adesso sta finendo la scuola, se ne dovevano andare da questo inferno. Siamo riusciti a superare indenni il viaggio fino al ponte (2 chilometri dal centro religioso, ndr) e mettere loro in salvo. Io sono tornato a casa, o a ciò che ne resta, per nascondermi. La stessa fortuna non l’ha avuta il mio grande amico, Anatolj Berezhnoy, morto mentre stava rientrando in città. L’ho visto per l’ultima volta dentro un sacco nero. Lui è morto per salvare la sua famiglia e altre persone”. E poi un ricordo indelebile: “La mattina del 31 marzo, mentre stavo bevendo un caffè qui in chiesa, dove mi ero rifugiato dopo che la mia casa è stata abbattuta da un missile, mi sono accorto che non c’erano più boati. Il rumore delle bombe – racconta Roman – si era fermato. Qualcosa di magico. Il giorno prima, il 30 marzo, è stato il peggiore, i russi non si sono fermati un attimo, hanno sparato tutto il giorno, come se dovessero finire le munizioni prima di andarsene. Quando la guerra sarà finita la mia famiglia tornerà a Irpin. È vero, la nostra casa non c’è più, ma vista la situazione costruirne un’altra potrebbe essere un’occasione”. Il dialogo con Roman si interrompe per un attimo, fino a quando non riesce a recuperare la sua gattina Blanca: “Una presenza fondamentale la sua nei giorni dell’assedio, per me e per tutti qui al centro di accoglienza. È stata un potente anti-stress e adesso è diventata la mascotte”.

Jelena Litvinenko è una signora arzilla che vive da sola e non ha mai pensato di scappare: “Per andare dove? Certo che ho avuto paura, ma sono riuscita a sopravvivere e guardo avanti. La mia casa è stata distrutta, avevo anche degli animali da cortile”. Il racconto di Jelena è simile a quello di tanti suoi concittadini dopo quasi un mese di sanguinosa occupazione della città da parte dei militari. La sua storia ha un dettaglio curioso: “Per giorni nessuno poteva mettere il naso fuori perché rischiava di essere ucciso, io sono rimasta nello scantinato a lungo, ma non avevo più cibo. Così col telefono ho mandato un messaggio ai miei vicini di casa che nel frattempo erano fuggiti verso la Polonia chiedendo se potessi entrare in casa loro e cercare qualcosa da mangiare. Loro mi hanno risposto di sì, ovviamente, anche se non sapevano come visto che la porta era chiusa. Non c’era problema, un colpo di mortaio aveva creato una breccia in una delle pareti della casa e sono entrata da quel buco”.

Nel gruppo di volontari al lavoro quotidianamente al Bible Centre dalla prima settimana di aprile c’è Vitalj Kovalev. Prima della guerra aveva iniziato la carriera di attore e da una cittadina dell’Ucraina occidentale si era spostato a Kiev. L’operazione speciale russa ha cambiato i suoi piani: “Mi sono subito offerto di andare in prima linea a combattere, ma non avendo alcuna esperienza militare non sono stato ammesso – spiega Kovalev – Allora ho provato con i nuclei di difesa territoriale e sto ancora aspettando di essere chiamato. Nel frattempo mi hanno inserito nel registro dei volontari, una sorta di terza linea dell’organizzazione interna. Durante l’occupazione delle città attorno alla capitale, ho vissuto a Kiev e quando i russi si sono ritirati hanno richiesto il mio aiuto a Irpin. I primi giorni qui, assieme ad altri, ho dato una mano a pulire le strade, a portare via le macerie, adesso aiuto i civili di Irpin a sopravvivere distribuendo cibo e vestiti. Incontro questa gente, ascolto le loro storie. Negli occhi vedo la tragedia che hanno vissuto e capisco quanto sia difficile dimenticare. Per tutti però adesso è un ritorno alla vita dopo un incubo lungo più di un mese. La prossima settimana dovrei spostarmi a Bucha e poi chissà quale altra esperienza mi capiterà di vivere”.

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