Il benessere produce reddito. Anche nelle piccole imprese. Non è teoria e non è un argomento meritevole di attenzione solo per le grandi imprese. Si tratta davvero di una equazione perfetta che riscontro sistematicamente nelle piccole aziende che frequento per motivi professionali: se c’è felicità diffusa tra il personale, si riduce il turnover dei dipendenti e la redditività aziendale è maggiore.
Ma, ripeto, diversamente da quanto avviene nelle grandi imprese, la ricerca della felicità nelle piccole realtà non è uno strumento per controllare le persone e sottometterle: un dipendente felice farà meno caso alle condizioni di lavoro, al salario, e tollererà maggiormente lo sfruttamento attraverso l’autosfruttamento.
In una piccola impresa è diverso. Laddove la linea gerarchica è molto piatta e i rapporti meno formali, la ricerca della felicità aziendale ha un impatto più sincero. Riprendendo i concetti di Daniel Kahneman, psicologo israeliano e premio Nobel per l’economia nel 2002, che ha messo in crisi il paradigma neoclassico del Pil, proponendo un approccio rivolto a misurare la felicità del cittadino e aprendo il nuovo capitolo dell’“Economia della Felicità”, in una piccola azienda abbiamo voluto osare con una scelta di politica aziendale molto originale: l’abbandono del Ebitda come esclusivo parametro di riferimento della efficienza aziendale e il suo accoppiamento al Fil.
Mentre la prima sigla dovrebbe essere ben nota a tutti gli studenti di economia e, un po’ meno, agli imprenditori (sempre orientati al fatturato), che si preoccupano della produzione di ricchezza, la sigla Fil è troppo recente (venti anni!) per essere immediatamente compresa. Se Ebitda significa “reddito prima delle tasse, ammortamenti e interessi”, Fil significa “Felicità interna lorda”, in altri termini la valorizzazione dello stato di benessere provato dal dipendente.
Gli studi tradizionali hanno lasciato finora intendere che le economie più sane, quelle cioè dove il piacere di viverci è più alto, sono quelle dove è più alto il rapporto Pil/pro capite. Se fosse così l’americano medio dovrebbe essere più soddisfatto della sua vita dell’europeo medio, il tedesco medio più soddisfatto dell’italiano medio, mentre il cinese e l’indiano medio dovrebbero essere fortemente demotivati per il loro modo di vivere. Il Bhutan, paese fra i più poveri del mondo (escludendo i paesi africani) e con un Pil pro capite bassissimo, dovrebbe avere quindi una popolazione costituita da infelici e frustrati. Ma i pochi turisti che l’hanno visitato dicono che non è così. Sembra che – anche se privo di automobili, di vestiti alla moda e, in alcuni casi, anche di luce elettrica – il bhutanese medio sia, malgrado tutto, contento e soddisfatto della sua vita.
Forse è la mancanza di modelli di riferimento (la televisione opera soltanto da una decina di anni) o forse è una maggiore saggezza popolare legata ai criteri educativi e religiosi. Va comunque riconosciuto che la ricerca della felicità non è soltanto legata alla produzione e al possesso di beni (conseguenza di una maggiore capacità di acquisto e di circolazione della moneta), ma anche al modo in cui la ricchezza aziendale viene utilizzata.
Gli indicatori ci sono e sono sufficientemente affidabili per comprendere e misurare anche la qualità della vita di una popolazione aziendale e il suo benessere. Pensate, oltre ovviamente alla retribuzione media netta, alle ore di formazione per la crescita professionale e manageriale, alla spesa pro-capite per attività sociali, culturali e sportive sostenuta dalla azienda, al tasso di anzianità di servizio, tutti fattori che possono evidenziare la fedeltà e il piacere di rimanere a lavorare in quella azienda.
E se anche in una piccola azienda si negoziasse un sistema di incentivazione basato su questi parametri per verificare quale incidenza abbiano sui classici indicatori (fatturato, produttività, tasso di assenteismo, ecc.)?