di Pasquale

Un barbuto omone sloveno sta seduto su una sedia da barbiere, fissa una telecamera davanti a sé che lo inquadra in bianco e nero, dietro di lui sono poggiati un paio di occhiali scuri e sullo specchio posto alle sue spalle campeggia una scritta in inglese “no thought” (nessun pensiero). La sua voce ansimante inizia con la consueta fiumana di parole trascinate dalla cadenza irregolare e intervallate da respiri affannosi, in questo quadro quasi surreale inizia la disamina del Filosofo:

“…Ma siamo coscienti che quando compriamo un cappuccino da Starbucks, noi compriamo anche molta ideologia? Ma quale ideologia? Quando si entra in un negozio Starbucks di solito c’è scritto su qualche poster in giro il loro messaggio e cioè ‘sì, il nostro cappuccino è più caro degli altri MA’ e poi arriva la storia ‘Noi diamo il 2% del nostro prezzo per la salute dei bambini in Guatemala, per le scorte d’acqua dei contadini del Sahara […] eccetera eccetera’. Ammiro la loro ingegnosità in questa soluzione, ai vecchi tempi del puro e semplice consumismo compravi un prodotto e ti sentivi in colpa: ‘Dio mio, con tutta quella gente che muore di fame in Africa’. L’idea era che dovevi fare qualcosa per neutralizzare il tuo consumismo puramente distruttivo, per esempio fare beneficenza. Ciò che Starbucks permette ora è di essere un consumista e di esserlo con la coscienza pulita perché il prezzo della contromisura per combattere il consumismo è già inclusa nel prezzo del prodotto. Ossia, paghi un po’ di più e non sei un semplice consumista ma fai anche il tuo dovere nei confronti dell’ambiente, della povera gente affamata e crei la massima forma di consumismo”.

Queste parole di Slavoj Zizêk possono sembrare tutto sommato innocue e non rilevanti in questo momento, peccato siano diventate le parole d’ordine delle grandi aziende che producono armamenti le quali hanno imparato la lezione dalla caffetteria più famosa al mondo. Noi produciamo le armi, che sono brutte e cattive, MA (ed ecco che anche qui arriva la storia) … le usiamo per combattere gli autocrati, difendere le democrazie in pericolo, combattiamo il terrorismo eccetera eccetera.

Questa ottica malsana è divenuta tuttavia un serio problema di stabilità internazionale poiché, come dalla notte dei tempi, se ci sono armi a disposizione prima o poi qualcuno sarà tentato (se non spinto) ad usarle scivolando nel cosiddetto paradosso della in-sicurezza: io mi sento minacciato, mi armo fino ai denti fin quando anche i miei vicini si sentiranno minacciati e si armeranno e cosi via, scatenando una serie di reazioni imprevedibili. Tutto ciò in un contesto di cosi alta tensione ci sta portando a camminare su un crinale molto pericoloso, che potrebbe presto farci precipitare in un conflitto molto più esteso ed enormemente più sanguinoso di quello tutto sommato regionale a cavallo dei confini ucraini; e per quanto i nostri interlocutori ragionino in termini di forza e prestigio militare, dobbiamo sforzarci in ogni modo a limitare il più possibile questo conflitto discutendo con i nostri “avversari strategici”, interiorizzando una soluzione che contempli – se non una visione pienamente win-win – quantomeno una non umiliante per nessuna delle forze in campo, evitando sentimenti revanscisti e di contrapposizione ‘noi/loro’.

Questo sentimento sarebbe la radice non solo di una riduzione dello spazio di manovra diplomatico futuro, ma anche di una nuova guerra che porrebbe fine definitivamente fine alle già scarse possibilità della nostra specie di festeggiare un nuovo secolo di vita. La volontà di pace non deve essere associata alla viltà o alla codardia, ma alla più elementare pulsione della nostra specie, il mantenimento della stessa sulla faccia della Terra e alla più grande lezione che deriva dalla nostra formazione in società democratiche, la prosperità comune.

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