Intervista al geologo e divulgatore scientifico, che non risparmia critiche al sistema: "Siccome la plastica durava per sempre, non era più possibile specularci e qualcuno ha pensato bene di usarla per il monouso". Come cambiare rotta? "Producendo all’origine meno imballaggi e realizzandoli in modo che siano più facilmente differenziabili e riciclabili, quindi con monomateriali. Oggi, invece, si invitano i consumatori ad acquistare confezioni inutili"
“Trasformare un materiale straordinario che poteva e doveva durare per sempre, come la plastica, in qualcosa che si utilizza una volta sola e poi si getta via è una scelta diabolica dettata dall’economia capitalista”. Il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi, primo ricercatore presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche, intervistato da ilfattoquotidiano.it nell’ambito della campagna Carrelli di plastica, portata avanti insieme a Greenpeace, spiega il suo punto di vista sul tema della plastica e dello smaltimento. Perché, mentre poco si fa per ridurne produzione e consumo, con la plastica riutilizzabile che rappresenta neppure il 2% per cento di quella che i maggiori produttori immettono sul mercato, resta il problema di come smaltire milioni di tonnellate di rifiuti. E in Italia si accende la discussione sugli inceneritori. Dal Lazio al Piemonte, fino a Lazio, Calabria e Sicilia. Il caso che fa clamore in questi giorni è quello della Capitale, dove il sindaco Roberto Gualtieri ha annunciato la costruzione di un impianto in grado di bruciare 600mila tonnellate di rifiuti indifferenziati all’anno, andando in direzione opposta a quella del presidente della Regione, Nicola Zingaretti e citando l’inceneritore di Copenaghen, inaugurato nel 2017 e ormai famoso per la pista da sci. Una buona notizia per Assoambiente. Ma c’è chi non la pensa così. “Se qualcuno mi parla ancora della pista da sci sull’inceneritore di Copenaghen, gli suggerisco i free climbers sulle torri delle centrali nucleari. E di analizzare gli accumuli al suolo, invece delle emissioni al camino. Meno imballaggi e raccolta differenziata spinta no?” ha scritto Tozzi sul suo profilo Twitter.
Partiamo proprio dalla raccolta. Secondo i dati Ispra, nel 2020 su circa 3,7 milioni di tonnellate di rifiuti plastici prodotti in Italia, neppure 1,6 milioni sono stati differenziati (quasi tutti imballaggi) e, di questi, sono state avviate al riciclo circa 620mila tonnellate. Come si può invertire la rotta?
“Producendo all’origine meno imballaggi e realizzandoli in modo che siano più facilmente differenziabili e riciclabili, quindi con monomateriali. Oggi, invece, si invitano i consumatori ad acquistare confezioni inutili. Pubblicità e scaffali sono pieni di quelle prodotte con diverse plastiche, carta, metalli. In questo modo si fa fatica a distinguerle, differenziarle e riciclarle. E poi spingere sulla raccolta differenziata. Ci sono città di media grandezza che raggiungono anche l’85%, dunque si può fare. Dobbiamo comunque ricordare che la plastica è un elemento che la natura non ricicla e che se ho un paraurti di plastica e voglio trasformarlo in altro, non ci posso fare un paraurti, ma un oggetto con prestazioni qualitative minori. Insomma, è sempre un processo a perdere. Seguendo una strategia che punta e riduzione, riutilizzo e riciclo, la percentuale che proprio non si riesce a trattare, e a quel punto si tratterebbe di volumetrie molto ridotte, si potrebbe tenere ancora in discariche controllate e, alcuni di quei materiali, si potrebbero anche recuperare”.
Tutto parte, dunque, dall’ideazione e dalla produzione, eppure in Italia la plastic tax è stata continuamente rinviata con una certa soddisfazione espressa dalle associazioni di categoria.
“Siccome la plastica durava per sempre, non era più possibile specularci e qualcuno ha pensato bene di usarla per il monouso. Ora la plastic tax potrebbe essere utile a cambiare rotta, ma abbiamo una classe imprenditoriale di conigli che, pur avendone la possibilità, è stata incapace di riconvertire i propri sistemi. È legata a vecchie idee, ha paura di investire e vuole essere sovvenzionata. Tant’è che siamo stati gli ultimi a recepire la direttiva europea sui sacchetti di plastica biodegradabili per la spesa e, anche il recepimento (tardivo) della direttiva Sup sul monouso ha introdotto deroghe tutte italiane”.
Il Paese, infatti, rischia la procedura d’infrazione dopo l’entrata in vigore, il 14 gennaio 2022, del decreto che recepisce il provvedimento dell’Unione europea, perché il testo approvato dal governo a novembre scorso, secondo la Commissione non è “in linea con le disposizioni e gli obiettivi della direttiva”.
“Purtroppo è così e dietro questo recepimento c’è ancora una volta chi ritiene che non possa esistere un mondo senza combustibili fossili. Le due cose sono collegate, dato che la plastica si produce con il petrolio. È vero che utilizzarlo per fabbricare plastica è sempre meglio che bruciarlo, solo che andrebbero realizzati prodotti destinati a durare nel tempo o particolarmente sofisticati, come protesi di un certo tipo, oggetti medicali e di precisione. Per queste finalità l’utilizzo della plastica non va demonizzato, il problema è tutto il resto, ossia imballaggi inutili e monouso”.
Così, circa 11 milioni di tonnellate metriche di rifiuti plastici inquinano gli oceani ogni anno. E, in assenza delle strategie più adatte, gli inceneritori giocano ancora un ruolo significativo nello smaltimento della plastica. Lei non parla mai di ‘termovalorizzatori’.
“Non so perché si parli di termovalorizzatori, perché non esistono. Non è un termine italiano e neppure europeo, ma inventato. Esiste l’inceneritore che può essere o meno con recupero di energia e di calore. Non so chi abbia inventato questo termine, ma immagino il perché, ossia per far pensare che si tratti di una cosa diversa dai vecchi inceneritori. Questi impianti hanno un ruolo importante nello smaltimento della plastica, perché questa ha un alto potere calorifico. Ma il fatto che dagli inceneritori si possa ricavare energia e calore, pur essendo in linea teorica una cosa positiva, non cambia il fatto che si tratta di impianti industriali, con tutto quello che ne consegue in termini di impatti. Oltretutto non si ricava l’energia che c’è voluta per bruciare gli oggetti. Significa che, se brucio una penna, non ricavo l’energia che ho consumato per fabbricarla. Quindi, da questo punto di vista c’è sempre un deficit energetico”.
Quali sono gli impatti ambientali? I nuovi impianti (e le regole sempre più stringenti) hanno eliminato ogni rischio?
“Anche quelli gestiti in modo corretto (e questo non avviene sempre e ovunque, ndr) inquinano, sebbene non in maniera disastrosa come altri tipi di impianti. Persino l’inceneritore più all’avanguardia, dotato di filtri fisici e chimici all’avanguardia, emette sostanze nocive per l’ambiente. Tra l’altro, quello che viene fuori dal camino può essere in regola e generalmente in Italia lo è, anche per quanto riguarda le emissioni di diossine e le polvere sottili, ma il problema è che queste si accumulano giorno dopo giorno nelle acque e nel suolo. Così, alla fine dell’anno, l’impianto è stato ogni giorno in regola, ma nel complesso è fuori regola se si tiene conto di questa concentrazione. E dato che di queste sostanze si cibano anche gli animali erbivori, il rischio è che le tossine entrino nella catena alimentare”.
Il sindaco di Roma ha citato l’inceneritore di Copenhagen, quello con la pista da sci, ma non è stato proprio il ministro danese per il Clima e l’Energia, Dan Jørgensen, a dire che “è ora di smettere di importare rifiuti di plastica dall’estero per riempire inceneritori vuoti e bruciarli a scapito del clima”?
“Perché c’è un altro problema legato agli inceneritori, ossia la questione della differenziata che, inevitabilmente, l’inceneritore disincentiva. Per essere economicamente convenienti questi impianti devono bruciare tanti rifiuti e, quindi, essere grandi. Questo va a incidere sul fatto che non raccogli più tanto in maniera differenziata. Perché si può arrivare anche fino all’85% per la differenziata, ma il 15% non è sufficiente per giustificare un impianto del genere. Due le soluzioni: o ridurre la raccolta deresponsabilizzando consumatori e produttori (nel caso di Roma la differenziata è già bassa, dato che non arriva neppure al 44%, ndr) o prendere rifiuti da altre parti”.
Come ha dovuto fare la Danimarca che, diminuendo le quantità di rifiuti prodotti, non riusciva più a riempire i ventitré impianti che negli anni passati avevano bruciato qualcosa come 3,8 milioni di tonnellate di rifiuti. E allora, per renderli economicamente convenienti, sono stati costretti a comprare rifiuti da Germania e Regno Unito. Ora però ha annunciato un taglio del 30% degli inceneritori.
“Questi sono i motivi per cui credo che non si debba più costruire inceneritori. Quelli vecchi si possono anche portare a fine vita, ma realizzarne di nuovi è anacronistico e controproducente”.