MAESTRI DI SPORT | La rubrica de ilfattoquotidiano.it con le interviste ai tecnici che hanno primeggiato nella loro disciplina. In questa puntata parla l'ex tecnico della nazionale azzurra: "Abbiamo nei confronti degli atleti una responsabilità enorme. Non si allena per se stessi o per riempire un ego personale. Sei già avanti con il tuo lavoro quando i ragazzi percepiscono cosa rappresentano loro per te"
Ogni quattro anni, con le estati olimpiche a riempire giornali ed esultanze, spunta qualche atleta che dal semi anonimato passa alla gloria. Questione di minuti: di prestazioni più o meno perfette che valgono le medaglie ai Giochi e l’ingresso nella ristretta categoria degli sportivi che ce l’hanno fatta. Di solito succede nelle discipline minori, definite così a causa dell’insopportabile vizio di pesare l’importanza di uno sport in base al seguito di pubblico. Ma tant’è. Non è questo il punto. Fatto sta che da essere nessuno, diventi un Dio. Per qualche giorno. E approfitti della ribalta mediatica. E ripensi a tutti i sacrifici fatti. E partono i ringraziamenti. Fateci caso: il primo grazie di solito è per “il mio maestro, quello che ha creduto in me e mi ha spinto a continuare nonostante le difficoltà”. Ecco: i primi maestri, quelli che insegnano sport, che crescono uomini e donne per farli diventare campioni. Vogliamo raccontarli così: capire il loro modo di intendere la competizione, scoprire i loro metodi, conoscere i loro aneddoti, sapere da chi hanno imparato. Ci saranno maestri noti e meno noti, espressione di discipline con grande o poco seguito. Unico comune denominatore: loro sono lo sport che insegnano e che hanno contribuito a migliorare. (Pi.Gi.Ci.)
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“Noi come tecnici abbiamo nei confronti degli atleti una responsabilità enorme. Non si allena per se stessi o per riempire un ego personale: lo si fa per i ragazzi e perché si ama questo sport. L’obiettivo di un allenatore è quello di sviluppare uno sportivo, facendolo migliorare come essere umano. Magari sarà scontato dirlo, ma i giovani sono il nostro futuro e sono loro che danno un senso al nostro lavoro”. Dopo un’ottima carriera da esterno centro di Serie A, Marco Mazzieri è stato per anni allenatore della Nazionale italiana di baseball. Oggi collabora con la World Baseball Softball Confederation, l’organizzazione che governa a livello mondiale baseball e softball. “Nel 2017 la WBSC ha chiesto a me e ad altri otto colleghi stranieri di studiare un progetto dedicato alla formazione di tecnici di tutto il mondo. Proprio in questi giorni sto dialogando con quattro tecnici di Hong Kong interessati a partecipare”.
Dunque è sempre in contatto con allenatori o aspiranti coach. Qual è l’errore più comune che commettono?
“Spesso si avvicinano agli atleti più talentuosi. Sbagliato! L’allenatore è lì per tutti. Nel corso della mia carriera ho imparato che sia un bambino di 12 anni che un giocatore di Major League capiscono quanto tu tieni a loro. Non è importante chi sei o quante cose sai. Sei già avanti con il tuo lavoro quando percepiscono cosa rappresentano loro per te”.
Da atleta ha ottenuto buoni risultati, giocando parecchio in Nazionale. Con i club ha vinto due scudetti con il Grosseto nel 1986 e nel 1989.
“Avevo un talento limitato ma una determinazione feroce”.
Come le è nata la passione per questo sport?
“Un mio vicino di casa a Roselle, comune di Grosseto, era un giocatore. Una decina d’anni più di me, già nei primi Settanta mi portava al campo a fare il raccatta mazze. Ho scoperto per la prima volta questo strano sport nel 1972, io avevo dieci anni. Due anni dopo ho iniziato a giocare nelle giovanili e sono stato in serie A fino al 2000”.
Quando è nata l’idea di diventare allenatore?
“Negli ultimi tempi dividevo lo spogliatoio con ragazzi molto più giovani di me. Li ho aiutati, soprattutto quando mi fermavo al campo a fare i miei extra. Mi sono messo a disposizione. Il mio percorso di allenatore è iniziato li. Poi ho iniziato a lavorare a Grosseto e nel 2003 sono entrato nella federazione italiana, facendo tanta gavetta nel settore giovanile fino all’arrivo in prima squadra”.
Dal 2007 per dieci anni è stato il primo allenatore della Nazionale maggiore, partecipando a tre WBC, quattro europei, due mondiali, una coppa intercontinentale, dove l’Italia ha conquistato uno storico bronzo. Poi cosa è successo?
“Nel 2016 è cambiato il presidente federale, semplicemente mi sono dimesso prima che mi mandassero via loro. Nel 2017 ho partecipato all’ultimo grande evento. Avevo costruito uno staff incredibile attorno a me. Per via del regolamento particolare del torneo, avevo in squadra sia giocatori italiani sia della Major League. A fine manifestazione la federazione mi hanno chiesto di firmare come direttore tecnico. Ma per quattro mesi non mi aveva considerato nessuno, ho così declinato l’offerta”.
È complicato gestire uno spogliatoio così eterogeneo?
“Gestire un gruppo composto da giocatori che guadagnano mille euro al mese e altri da milioni di dollari non è affatto scontato, eppure la vera forza di quella squadra è stato lo spogliatoio. Non esistono strategie particolari, ma come ho già detto prima quello che conta è far capire ad ognuno di loro quanto siano importanti. Regole per tutti, nessuno escluso. Cercando di interfacciarmi con ognuno in maniera diversa”.
Le manca la Nazionale?
“Visto come è stata gestita negli ultimi cinque anni, direi proprio di no. A livello giovanile abbiamo sempre dominato eppure nelle ultime nove competizioni di livello, tra cui sei disputate in Italia, non abbiamo vinto nulla”.
E il campionato italiano?
“Sono cinque anni che non vedo partite, non mi diverto con un torneo a 32 squadre perché il livello è basso. Trent’anni fa c’era molto più entusiasmo, in parecchie città si respirava baseball, ma era in generale un’epoca diversa: ora si tende a rimanere più in casa e si può vedere in tv tutto ciò che si desidera. In Italia i ragazzi iniziano a giocare ma poi smettono presto, ci sono tanti campi ma poco entusiasmo. Nonostante il periodo brutto, lo sciopero dei giocatori e il fatto che ormai i punti si facciano solo con fuoricampo, il baseball Usa rimane ancora affasciante. Fosse solo per l’entusiasmo che scatena negli americani, mi piace ancora”.
Chi considera i suoi maestri?
“Li ho trovati negli Stati Uniti. Mia sorella vive a Baltimora e io parecchie volte sono andato agli spring training a Fort Lauderdale. La prima volta seguendo la Minor poi la squadra più importante. Ancora giocavo nel 1999, quando ho conosciuto Tom Trebelhorn, manager di Milwaukee Brewers che poi avrei invitato anche a Grosseto. Con gli Orioles ho conosciuto anche Mike Hargrove, altro manager di grandissimo livello, ex allenatore di Cleveland, squadra che io al massimo vedevo in tv negli anni 90. Con loro è come avessi fatto l’università con un docente privato. L’America per il baseball è un altro mondo, lì si fa uno sport diverso. Ma la mia ambizione è sempre stata quella di trattare la Nazionale italiana proprio come un club di Major League e infatti la squadra azzurra è cresciuta nella programmazione, nello staff, nella gestione delle risorse umane. Poi dalle esperienze americane ho preso qualcosa anche a livello tattico, soprattutto nella cura dei dettagli”.
Stati Uniti che l’Italia ha battuto al Mondiale del 2007.
“Competizione che poi loro avrebbero vinto con solo quella sconfitta in tutto il percorso. In una partita secca è importante quello che fai tu e si può vincere, come in realtà è successo, contro una formazione cinque volte superiore. Non bisogna mai preoccuparsi di chi si ha davanti”.
Qualche suo ex giocatore con la stoffa del coach?
“Nomino Alex Liddi, Frank Catalanotto e Tyler Latorre. Giocatori che hanno dovuto sempre lottare e sudare per ritagliarsi un loro spazio in questo sport. Questo ti fa diventare uno studioso del gioco”.
Un libro indispensabile da consigliare agli aspiranti coach?
“The mental game of baseball è stata una lettura fondamentale nel mio percorso. Nessun allenatore mi aveva parlato mai della parte mentale del gioco, cioè su come riempire le pause del gioco. In una partita di baseball ci sono tanti fallimenti e la gestione di queste fasi è importantissima. Infatti io ho portato in Nazionale il mental coach dei Seattle Mariners”.
Qualche film da segnalare?
“Ci sono film molto belli sul baseball anche da far vedere agli aspiranti allenatori, ma che spesso tradotti malissimo in italiano anche nel titolo come per esempio Gioco d’amore con Kevin Costner. Poi cito Moneyball con Brad Pitt e uno con Clint Eastwood che fa lo scout vecchia maniera, anche se oggi è cambiato molto il modo di visionare i giocatori”.