“Sarà una partita agraria, tosta, combattuta”, aveva assicurato Marco Giampaolo, presentando il derby di Genoa, quasi scusandosi, mettendo un po’ le mani avanti. “Non sarà di certo Manchester City-Real Madrid”, diceva. Si sbagliava. È stata pure meglio. Sampdoria-Genoa resterà come una delle grandi partite di questo campionato. D’accordo, lo spettacolo magari ha lasciato un po’ a desiderare: falli a ripetizione, pochi tiri in porta, nessuna concessione alla raffinatezza tecnica. Però che intensità, che emozioni. Una su tutte. Quella di Domenico Criscito, genoano del Genoa, protagonista suo malgrado di questo derby da crepacuore.
A gennaio era stato praticamente ceduto al Toronto, la squadra canadese che ha fatto shopping in Italia e oltre a Insigne si era accaparrata pure il difensore rossoblù. Aveva praticamente firmato, poi ci ha ripensato: non se la sentiva di scappare dalla nave che affonda. È rimasto, per provare a salvare il suo Genoa dalla retrocessione. Dopo settimane ai margini per infortunio è tornato disponibile apposta per il derby, e il destino gli ha pure regalato l’occasione che sognava: un rigore, all’ultimo secondo, contro i rivali della Samp nello spareggio salvezza, che avrebbe potuto cambiare la stagione. Solo che lui l’ha sbagliato.
Anche senza lieto fine, anzi a maggior ragione, le lacrime di Criscito, il bacio di Audero, il portiere avversario che gli ha parato il rigore decisivo e lo ha consolato subito dopo sentendo il suo dolore, sono una storia di calcio straordinaria. Una storia di calcio che la Superlega (e probabilmente pure la Champions League) potranno mai regalarci. Alla vigilia del match, il mister Giampaolo si era lasciato andare a un confronto immaginifico con quella che è stata la partita dell’anno. Voleva essere una battuta, eppure il paragone non poteva essere più pertinente.
Samp-Genoa e City-Real sono i due modelli opposti a cui il calcio moderno può guardare. È evidente che il sistema sta andando verso il secondo. Abbiamo assistito al tentativo abominevole di golpe della SuperLega, un campionato dei ricchi, dove i club più ricchi giocano solo tra loro, per diritto di nascita. Ancora non sappiamo come finirà, la Uefa sta combattendo per salvare le apparenze e la Champions League, dove almeno in teoria tutti possono partecipare e vincere (non è una differenza da poco), ma il principio non è poi troppo diverso.
In crisi di identità e soprattutto di risorse, il pallone si interroga sul suo futuro. La risposta è stata la Superlega, che è soprattutto un progetto di sostituzione del bacino di utenza: visto che il mercato ormai è saturo e non permette di generare le sempre maggiori risorse che le società vorrebbero, l’obiettivo finale è sacrificare migliaia di tifosi locali, come quelli genoani e sampdoriani che hanno assistito al derby, per andare a prendere milioni di spettatori americani, cinesi o arabi.
È questo che si intende quando si parla di calcio del popolo. I ciechi sostenitori della Superlega utilizzano scioccamente questo motto contro la Uefa di Ceferin, per rinfacciarle le ipocrisie e le contraddizioni di un calcio sempre più ricco. Ma non è questo il punto. Il “calcio del popolo” (se proprio bisogna usare questa espressione così inflazionata), è quello in cui i fruitori ultimi sono ancora i sostenitori delle squadre, e le competizioni ruotano intorno ad esse, non viceversa. Come sarebbe con la Superlega, come è già ad esempio nel basket, dove la tanto celebrata Eurolega ha ucciso l’intero movimento nazionale. È proprio un salto di categoria: non più tifosi, ma spettatori. Non più partite, ma spettacolo. Solo che il pallone non è uno show, è uno sport. E per chi ama davvero il calcio, non c’è niente di più bello di Samp-Genoa. Per tutti gli altri, c’è City-Real.
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