Per la fine del mese sacro di Ramadan, il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha voluto mostrare di possedere una delle qualità di Allah: la clemenza.

Così, alcuni prigionieri hanno lasciato il carcere dopo avervi trascorso periodi di tempo sproporzionati, quando non avrebbero mai dovuto mettervi piede: tra questi, Walid Shawki, attivista del Movimento 6 aprile, arrestato il 14 ottobre 2018; Mohamed Salah, giornalista, arrestato il 29 novembre 2019; e Radwa Mohamed, blogger, arrestata il 15 novembre 2019.

Se noterete la data dell’arresto, vi accorgerete che avevano superato ampiamente la durata massima di due anni della detenzione senza processo, grazie al sistema delle “porte girevoli” (tadweer) che fa sì che un detenuto prossimo alla scarcerazione venga iscritto, del tutto arbitrariamente, a un’altra inchiesta per “legalizzarne” la permanenza in carcere.

È andata così, e pure peggio, al ricercatore e difensore dei diritti umani Ibrahim Ezz el-Din, tornato in libertà il 26 aprile. Era stato arrestato l’11 giugno 2019 al Cairo, appena uscito dalla sede della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, presso la quale lavorava occupandosi in particolare del diritto a un alloggio adeguato, documentando le condizioni di vita negli insediamenti poveri e informali e denunciando gli sgomberi forzati. Aveva trascorso 167 giorni da “desaparecido”, detenuto in un luogo sconosciuto ai familiari e senza poterli contattare. Era riapparso, come tantissimi altri, di fronte alla Procura suprema per la sicurezza dello stato, dove gli erano state notificate le accuse di “aver contribuito al raggiungimento degli obiettivi di un gruppo terrorista” e di “pubblicazione di informazioni false che minacciano la sicurezza nazionale”. Il 27 dicembre 2020 un tribunale aveva disposto la libertà condizionale. Ma sei giorni dopo la Procura lo aveva iscritto a una nuova inchiesta per “appartenenza a un gruppo terrorista”.

Così, paradossalmente, un prigioniero di coscienza vittima di sparizione forzata per quasi tre mesi è stato scarcerato nel pieno rispetto della procedura penale egiziana.

Di un altro provvedimento di clemenza hanno beneficiato, ma per la ricorrenza della Pasqua ortodossa, anche nove cristiani copti arrestati il 30 gennaio dopo che avevano preso parte a una protesta pacifica contro i ritardi nell’approvazione del progetto di ricostruzione della chiesa del loro villaggio, distrutta da un incendio nel 2016.

Per i pochi usciti dal carcere – la cui gioia, insieme a quella di amici e familiari, al ritorno in libertà non può e non deve sminuire l’importanza di quanto accaduto – in molti restano in carcere. Tra questi, Ahmed Samir Santawy, Ahmed Douma, Alaa Abd el-Fattah, Mohamed el-Baqer, Mohamed Oxygen, Ziad el-Eleimy e Hisham Fouad, solo per citarne alcuni. All’inizio di aprile molti di loro hanno avviato uno sciopero della fame per protestare contro le durissime condizioni detentive, il diniego dell’uso della biblioteca e degli spazi per fare esercizi fisici e il divieto di ricevere libri o giornali dall’esterno. L’obiettivo del regime egiziano è chiaro: annichilirli, isolarli, non far sapere loro cosa accade fuori dal carcere.

Ps. Questo post è stato scritto quando il Ramadan non era ancora terminato. È possibile che nelle ultime ore siano stati rilasciati altri prigionieri.

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