Al primo piano la cucina e le sale da pranzo, salendo l’ambiente di ritrovo, in mezzo l’area dei bagni e a salire le stanze da letto: ecco come l’esercito russo ha trasformato in una sorta di hotel un condominio di Irpin. L’occupazione dell’armata russa è stata non troppo lunga e pianificata male. Nei progetti degli aggressori c’era l’idea di avanzare, passo dopo passo, fino alla capitale Kiev. Proprio a Irpin, comune di 70mila abitanti immerso in un polmone verde, una sorta di ‘piccola Svizzera’, la cavalcata che Mosca immaginava trionfale si è definitivamente arenata.

In un ambiente ostile, con temperature polari e i terreni ghiacciati e intrisi d’acqua, la disfatta si è materializzata attorno alla metà di marzo. Dopo essere avanzati senza incontrare ostacoli lungo la grande arteria E373, conosciuta come ‘Varszawska’, e attraverso il collegamento parallelo, la T1011, che taglia una splendida foresta, le code di tank si sono arenate in questa cittadina. Qui, nella parte orientale, i militari russi hanno occupato molte case e appartamenti che i residenti locali avevano lasciato in fretta e furia dopo le ondate di bombardamenti con razzi e mortai. In un edificio al limitare della foresta, con la vista aperta su Bucha, Hostomel e il nord, circondato dalle acque dei corsi d’acqua ‘Bucha’ e ‘Irpin’, l’esercito occupante ha stabilito la sua residenza. In quel palazzo di dodici piani abitava anche Maria, membro della Croce Rossa locale scappata e adesso tornata da qualche giorno: “Sapevo che i russi avevano bombardato il palazzo, poi ho scoperto che nell’edificio prima ci avevano vissuto – racconta – Tutti gli appartamenti erano stati usati per i loro sporchi comodi, avevano diviso la struttura in piani e in ognuno stava un servizio. In tre settimane di occupazione quei soldati hanno razziato tutto ciò che si poteva prendere, sporcato, imbrattato e pareti con le loro ‘V’ nere, scritto frasi di odio e di scherno con la vernice. Sono entrati in casa mia e questo mi angoscia, anche se di casa mia non resta più nulla”.

In effetti, una volta compresa la piega negativa che stava prendendo l’attacco su Kiev gli occupanti hanno pensato bene di dare fuoco a tutto o quasi. Al secondo piano, sul lato a est dell’edificio, quello meno distrutto, due coniugi stanno cercando di salvare qualcosa. La donna, sentiti i rumori e le nostre voci, apre la porta con in mano una specie di piede di porco: “Lo tengo sempre con me, non vorrei doverlo usare qualora quelli ritornino”, scherza fino a un certo punto. A differenza degli alloggi sul lato opposto del pianerottolo, il loro non è incenerito, ma la ferocia degli occupanti l’ha reso inservibile: “C’è poco da salvare, qualche ricordo, poco altro. Per come è ridotto, il palazzo andrà abbattuto”, aggiungono sfiduciati marito e moglie.

Come gli altri, anche nel loro appartamento non c’è più nulla che non sia cenere. Sul pianerottolo campeggia una scritta in cui i russi, in sostanza, danno la colpa del blitz nel condominio agli americani. E poi la solita ‘V’ nera: “Lo sfregio finale”, è l’amaro commento di Maria. A un mese esatto dalla liberazione di Irpin, una parte minoritaria di abitanti sta tornando per valutare i danni e decidere se vale la pena restare. Dati alla mano, l’80% degli edifici di Irpin ha subìto danneggiamenti di cui il 20% è totalmente distrutto. All’ingresso da nord, dopo aver lasciato Vorzel, un centro commerciale è stato letteralmente sfondato. Ogni edificio presenta i vetri in frantumi e i ‘rosoni’ delle granate sulle facciate.

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