Chi si accontenta gode, il conosciuto adagio, è un falso! Almeno nella filosofia aziendale e manageriale. Sono quindi giustificati tutti quelli, anche nei media e tra gli intellettuali, che continuano a sostenere la saggezza della massima perché non hanno mai ragionato in termini di “obiettivi variabili”.

E’ vero che gli obiettivi, in un qualsiasi processo di budget, sono definiti ad inizio esercizio sociale (anno di lavoro) e, pertanto, se raggiunti definiscono un successo. Ma è altrettanto certo che, se nel corso dell’anno, ci si rende conto che “quegli obiettivi” erano stati sovrastimati o sottostimati rispetto alla reale portata dei risultati raggiungibili, devono essere cambiati in maniera tale da limitare (in taluni casi addirittura annullare), nel caso in cui non vengano centrati, l’enfasi e gli alibi di “quelli che si accontentano”.

Il budget non è una profezia, ma una previsione fatta sulla base di una simulazione che tiene conto di ipotesi e non di certezze.

La qualificazione Champions per il Napoli era un obiettivo stabilito ad agosto sulla base delle seguenti ipotesi:

1. da due anni non si qualificava per partecipare alla massima competizione europea;

2. il potenziale della rosa di Juve (ricordatevi che ad agosto aveva ancora Ronaldo), Inter, Roma, Lazio, Milan era considerato (questa era la griglia ad agosto) migliore di quello degli azzurri;

3. la media punti-scudetto degli ultimi cinque anni è stata 83 mentre quella del Napoli è stata di 76.

Malgrado questa precisazione, l’interpretazione data da alcuni media e dalla proprietà del Napoli (“acquaio’ l’acqua è fresca”) non è soltanto quella di leggere un budget come una “previsione” (con tutti i limiti che qualunque previsione ha in termini di tolleranze e di approssimazioni) ma addirittura come una “predizione” e quindi come una certezza anticipata senza dubbi, senza campo di tolleranza, senza approssimazione.

Nel corso dell’anno la situazione è cambiata totalmente e quando ci si è resi conto di partecipare al campionato più equilibrato (verso il basso) degli ultimi dieci anni, l’obiettivo è stato cambiato: scudetto! Parole di Spalletti, di Mertens e di tutta la pletora di commentatori sportivi che ora si “accontentano” (e bisogna pure esultare!) per quello che, già da oltre due mesi, era diventato “l’obiettivo minimo”.

Dal punto di vista etimologico il verbo accontentare, in alcuni dizionari, rimanda al verbo “contenere”, rinviando quindi al concetto di appagare con misura, con un limite. Da questo punto di vista, l’accontentarsi significa rinunciare, spesso per resistenze e fatiche interne, per mantenere lo status quo delle cose, la cosiddetta “zona di comfort”, fatta di quello che si conosce, delle proprie abitudini che, per quanto creino dolore e malessere (anche Spalletti sta soffrendo), sono la nostra condizione, a noi familiare, triste e difficile casomai, ma “nostra”. Quella di essere dei “fantastici perdenti” che, come twitta la società, “per 13 anni consecutivi, unico caso in serie A, si qualificano per una competizione europea”.

Allora ci si accontenta, ovvero si accetta passivamente e con frustrazione (loro sì e non noi tifosi vessati da mogli e capiufficio), un obiettivo, senza mettersi troppo in gioco e in discussione. Continuano ad essere dei “fantastici perdenti”! L’accontentarsi implica il contare, il calcolare, l’acconto sulla vita: e chi calcola non gode, perché non vince mai. Non esiste lavoro fatto con determinazione che sia sottoponibile al calcolo: chi vuole vincere si spende tutto, va fino in fondo, affonda il colpo e lascia la calcolatrice ai “fantastici perdenti”, che alla fine sono sempre tristi e stanchi, anche se hanno fatto solo la metà dei vincenti che non si accontentano.

Ma forse a Napoli è il caso di riascoltare la geniale canzone di Gaber, “L’Obeso”, che comunica un concetto fondamentale: ingoiare tutto per “paura di non essere nessuno”.

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