Politica

Armi all’Ucraina, l’Italia non può fare la guerra: punti piuttosto ai negoziati

di Barbara Pettirossi

L’invio delle armi in Ucraina ha, tra i vari effetti collaterali, quello di mostrare a Putin quali sono gli Stati alleati che non possono permettersi di impegnarsi militarmente e finanziariamente in una guerra. L’Italia con le sue dotazioni militari non può, a quanto pare, permetterselo. Non credo sia necessario lo spionaggio russo per rivelare a chicchessia che non abbiamo alcun tipo di strategia militare da mettere in campo, se non quella di appiattirci sulla Nato. Si potrebbe sospettare che le liste di armi secretate nascondano in realtà una vergogna, il senso di inadeguatezza di fronte al “poco” di cui disponiamo rispetto agli altri.

Dal punto di vista di un mondo orientato alla guerra, questa situazione non è proprio confortante per ragioni evidenti che non intendo evocare. Ma esiste un altro punto di vista per il nostro Paese, il quale possiede al suo attivo più di duemila anni di storia, molte guerre di conquista, di difesa e di resistenza. Insomma, un bagaglio di memoria immenso che dovremmo sfruttare molto meglio.

L’Italia potrebbe avere un ruolo centrale nella diplomazia, se solo la smettessimo di indirizzare i nostri neuroni specchio verso l’atteggiamento da “bulli” di quanti mostrano i muscoli alla Russia. Dobbiamo smettere di emulare principalmente gli Usa, di mostrarci condiscendenti rispetto alla loro mentalità da “esportatori di democrazia e salvatori del mondo”. Sì, siamo loro grati per l’aiuto che ci hanno fornito durante la seconda guerra mondiale, e riconosciamo le loro molteplici abilità; ma non è possibile eticamente e politicamente confondere la gratitudine con la soggezione, la stima con la riverenza.

Quale contributo concreto l’Italia può o avrebbe potuto offrire a questa situazione di devastazione e morte? Quali risorse culturali e politiche, frutto di un’esperienza millenaria, servirebbero in questa circostanza? Non si tratta di strombazzare al mondo un vuoto nazionalismo, ma comprendere prima di tutto su quale terreno ci è possibile effettivamente “combattere” senza nessun interventismo velleitario, e poi renderlo noto con una certa assertività ai nostri alleati. E per dare consistenza a questa idea di autoconsapevolezza, basta ricordare che nel 2020 – a dispetto dei detrattori nostrani, che sembrano sempre remare contro a meno che i protagonisti non siano loro – siamo stati un esempio per l’Europa, alla quale in fondo abbiamo offerto una visione del mondo collaborativa, e da cui abbiamo ottenuto non una semplice pacca sulla spalla o un attestato di merito, ma soldi. Durante la pandemia, gran parte degli italiani ha approvato la giusta e sacrosanta conta dei morti, uno a uno, come dovrebbe fare ogni nazione civilizzata con un profondo rispetto per la vita umana. Ora, con questa guerra che si sta lentamente trasformando in guerra di aggressione, ci stanno chiedendo di perdere il conto di quei morti.

Se l’Italia sarà il luogo in cui il dibattito è ancora possibile, dove è possibile ascoltare senza necessariamente approvare anche gli argomenti del Ministro degli esteri russo, in quanto esponente di quel governo responsabile dell’invasione dell’Ucraina, se l’Italia si adopererà a favorire un nuovo tavolo dei negoziati, allora potremo mostrare senza paura chi siamo: un popolo pacifico, proprio perché ha conosciuto la guerra. I fucili non appartengono più alla nostra storia nazionale, ed è forse per questo che non abbiamo fatto grandi sforzi per armarci in questi ultimi anni. Non si tratta di uscire dalla Nato, non si tratta di opporsi a un esercito europeo o di ostacolare i nostri alleati, ma di assumere un ruolo consono alle nostre caratteristiche e possibilità, diplomaticamente strategico e proattivo.

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