Il faccia a faccia di metà aprile tra il premier e gli esponenti del centrodestra e le proposte di mediazione arrivate dal Tesoro non sono bastate. Il sottosegretario leghista all’Economia, Freni, ha fatto sapere che si vuol "chiudere un pacchetto che possa essere votato da tutti serenamente". Senza accordo, l'unica strada possibile è la fiducia sul testo originario. Quello senza clausola sull'invarianza della pressione fiscale, senza il cashback fiscale proposto dal M5S e senza la progressiva uscita dalla flat tax per gli autonomi cara alla Lega. Marattin: "Rischio di buttare a mare quel lavoro condiviso"
La relazione illustrativa la definisce “tra le azioni chiave individuate nel Pnrr per dare risposta alle debolezze strutturali del Paese” e in quanto tale “parte integrante della ripresa che si intende innescare anche grazie alle risorse europee”. Ma, a sette mesi dal varo in Consiglio dei ministri e nonostante il faccia a faccia di metà aprile tra il premier e gli esponenti del centrodestra, la riforma fiscale del governo Draghi è ancora nel limbo. All’inizio di aprile il presidente della Commissione Finanze della Camera Luigi Marattin, dopo settimane di tensione con tanto di lancio di oggetti e votazioni sul filo del rasoio, ha passato la palla a Chigi. Ma gli ulteriori tentativi di mediazione su catasto e aliquote sui redditi da capitale non sono bastati per trovare un accordo in maggioranza e l’approdo in Aula, slittato via via dal 19 aprile al 9 maggio, è stato ancora una volta rinviato su richiesta dell’esecutivo. “Presiedo una commissione che lavora da un anno e mezzo su questa delega, su cui è stato trovato un accordo già il 30 giugno scorso, quindi mi chiedo dove stiamo andando e se non si corra il rischio di buttare a mare quel lavoro condiviso”, commenta il deputato di Iv con “un minimo di preoccupazione“, mentre la capogruppo M5s in commissione Vita Martinciglio chiede di uscire dal gioco dei rinvii: “Il governo valuti se ci sono le condizioni per un accordo, altrimenti si proceda con un calendario stabilito e ogni forza politica, in tal caso, si assumerà le responsabilità delle proprie scelte”.
I fronti di scontro sul fisco sono ben noti. Il primo è la revisione del catasto per individuare gli immobili fantasma e adeguare i valori risalenti al 1989 all’evoluzione del mercato attribuendo a ogni immobile una rendita “sulla base, ove possibile, del normale valore di mercato”. Il tutto a decorrere solo dal 2026 e con la clausola che le nuove informazioni non saranno usate “per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali”. Insomma: stando al testo nessuno pagherà di più, contrariamente a quanto sostiene il centrodestra che peraltro nel 2014 ha votato una riforma praticamente identica nell’ambito di una precedente delega fiscale. Se poi un successivo governo decidesse di usare la mappatura aggiornata per rivedere la base imponibile, il risultato secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio sarebbe un riequilibrio nel senso di una maggiore equità: chi abita in periferia sarebbe avvantaggiato, mentre a rimetterci sarebbero i proprietari di seconde case nel centro delle grandi città e nelle zone turistiche. In ogni caso il Tesoro, nelle proposte di compromesso inviate ai gruppi parlamentari a inizio aprile, ha precisato ulteriormente che dalla riforma “non deve derivare un incremento della pressione tributaria rispetto a quella derivante dall’applicazione della legislazione vigente”.
Nel mirino di Forza Italia e Lega c’è però anche il passaggio al cosiddetto modello di tassazione duale in cui i proventi da lavoro sono tassati in maniera progressiva e quelli che derivano dalla messa a frutto del capitale con un’aliquota proporzionale. Qui il problema è che il testo originario della delega dispone l’applicazione della “medesima aliquota proporzionale” ai redditi “derivanti dall’impiego di capitale, anche nel mercato immobiliare“, come del resto era già previsto nel documento delle Commissioni Finanze di Camera e Senato approvato la scorsa estate anche dal Carroccio. Che ora teme il rialzo dell’imposizione sui proventi da titoli di Stato e buoni postali (soggetti all’aliquota agevolata del 12,5%) e da locazioni (per le quali si può optare per la cedolare 21%) fino al 26% per equipararla all’aliquota applicata a dividendi e interessi su azioni e obbligazioni aziendali. E pretende una clausola che faccia salvi i livelli attuali.
Il sottosegretario leghista all’Economia, Federico Freni, ha fatto sapere che “il rinvio origina dalla necessità di chiudere un pacchetto che possa essere votato da tutti serenamente“. Perché se si va in aula ora, in assenza di accordo e senza mandato al relatore, l’unica strada possibile è la fiducia sul testo originario. Quello senza clausola sull’invarianza della pressione fiscale, senza il cashback fiscale proposto dal Movimento 5 Stelle, cioè il rimborso immediato delle spese detraibili, senza la progressiva uscita dalla flat tax per gli autonomi cara alla Lega e senza la previsione del “pieno utilizzo dei dati resi disponibili dalla fatturazione elettronica e dalla trasmissione telematica dei corrispettivi, nonché alla piena realizzazione dell’interoperabilità delle banche dati” ai fini della lotta all’evasione, anche grazie a “potenziamento dell’analisi del rischio, ricorso alle tecnologie digitali e soluzioni di intelligenza artificiale“.
Nel frattempo il governo è impantanato anche sul ddl concorrenza: l’ennesima riunione non ha sciolto i nodi sulle concessioni idroelettriche. Se va bene si chiuderà a luglio, in contemporanea con il varo del nuovo disegno di legge annuale.