Messasi all’angolo con l’invasione dell’Ucraina, la Russia sta cercando di rispondere colpo su colpo agli attacchi che le sono diretti a livello internazionale. Sul fronte politico, uno dei teatri principali è l’Asia Centrale: basti pensare che il ministro degli esteri dell’Uzbekistan è stato appena spinto alle dimissioni dopo aver esplicitato il proprio sostegno all’integrità territoriale ucraina e che il Kazakistan – ufficialmente alleato di ferro del Cremlino nell’area – è finito sotto i riflettori russi per aver deciso di cancellare la parata militare del 9 maggio. In questo caso, ad agire da ariete è stato un presentatore televisivo grande sostenitore di Putin che durante una diretta ha minacciato le autorità kazache in caso di un allontanamento dalla linea russa. Sul fronte energetico, invece, a essere al centro dell’attenzione del Cremlino è ovviamente l’Europa. La decisione di sospendere le esportazioni di gas verso Polonia e Bulgaria è solo l’ultima mossa di una partita a scacchi energetica che vede impegnate Mosca e Bruxelles. L’obiettivo è speculare: il Cremlino punta a individuare nuovi mercati di approdo dei propri idrocarburi, i Paesi europei sentono come sempre più impellente la necessità, ignorata per molti anni, di trovare nuovi fornitori di energia. La partita in corso, a prescindere dalla prospettiva a cui ad essa si guardi, è tanto delicata quanto decisiva e promette di modificare per sempre uno scenario considerato per decenni immutabile.

Il confronto è latente da molto tempo, da ben prima dell’invasione dell’Ucraina, ma ha senza dubbio subito un’accelerazione significativa nelle ultime settimane. A metà aprile, Putin ha dichiarato a chiare lettere che i Paesi europei non sarebbero in grado di rinunciare del tutto al gas proveniente dai giacimenti controllati da Mosca. Contestualmente, l’inquilino del Cremlino ha dato mandato ai funzionari russi di individuare, nel più breve tempo possibile, rotte alternative di esportazione. Allo stesso tempo, sul fronte europeo è iniziata una frenetica attività diplomatica che ha visto l’Italia in prima fila nell’individuazione di fornitori che potrebbero tamponare un’eventuale interruzione del flusso di gas proveniente da est.

La strada è in salita per entrambi. A livello di Unione europea, la Russia ha finora contribuito con le sue esportazioni a soddisfare circa il 40% del fabbisogno complessivo dei Paesi membri, con punte del 66% per la Germania, del 95% per l’Ungheria e addirittura del 100% per la Repubblica Ceca. La quota scende, ma non di molto, per quanto riguarda il petrolio: quello proveniente dalla Russia pesa per il 25% sul fabbisogno dei Paesi membri dell’Ue. C’è da dire, però, che il mercato dell’oro nero funziona in maniera diversa da quello del gas naturale: se il primo è caratterizzato da maggiore flessibilità – ad esempio esiste un sistema internazionale di scambi e di prezzi (legato alle quotazioni di borsa del WTI e del Brent) – il secondo è per sua natura molto più rigido. Il gas naturale viene infatti scambiato sulla base di accordi bilaterali, elemento che, insieme alla complessità o al semplice costo elevato del trasporto di grandi quantitativi, ne caratterizza la rilevanza geopolitica.

Guardando alla scacchiera dal lato europeo, le opzioni sul tavolo non sono così numerose. L’ambizioso obiettivo di Bruxelles è quello di ridurre l’utilizzo del gas russo il più rapidamente possibile, tagliandolo di due terzi entro la fine dell’anno e affrancandosi totalmente entro il 2027. Impossibile raggiungere tale traguardo agendo separati o semplicemente trovando un altro fornitore che copra integralmente la quota russa. Una realtà che rende necessario individuare più strade da percorrere contemporaneamente. Escludendo ipotesi al momento irrealizzabili come la costruzione di un gasdotto proveniente da Iran o Turkmenistan – giganti del gas naturale ma, per motivi diversi, fornitori ben più inaffidabili della Russia e che devono fare i conti con grandissimi ostacoli geopolitici – un aumento delle importazioni via gasdotto dall’Azerbaigian (attraverso il Tap che arriva in Puglia), dalla Norvegia o dall’Algeria è sicuramente un obiettivo più a portata di mano. Allo stesso tempo si potrebbe aumentare la quota di gas naturale liquefatto (Gnl) che arriva annualmente in Europa via mare, dagli Stati Uniti ma anche da Paesi come Qatar e la stessa Algeria. Possibile ma costoso e non realizzabile in pieno nel breve periodo, perché sarebbe necessario realizzare nuovi impianti di rigassificazione – indispensabili per immettere il metano nelle condotte in forma gassosa – di cui l’Europa dispone solo in parte. Fondamentale, infine, sarebbe accelerare nella dimensione delle energie rinnovabili – soprattutto solare ed energia eolica – e in quella dell’efficienza energetica per ridurre gli sprechi.

Se l’Unione europea dipende dalle importazioni russe sul fronte energetico, Mosca dipende dal mercato europeo per quanto riguarda le entrate finanziarie. I ricavi derivanti dalla vendita di gas naturale e petrolio contribuiscono significativamente al bilancio della Federazione, addirittura del 45% secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia. Stando a uno studio appena pubblicato del Center for Research on Energy and Clean Air, nei circa due mesi dall’inizio del conflitto e nonostante il calo delle vendite di idrocarburi all’Europa, la Russia avrebbe addirittura raddoppiato le entrate legate all’energia grazie al rialzo dei prezzi. Putin deve quindi necessariamente trovare mercati alternativi prima anche solo di pensare a un taglio delle forniture verso ovest. Se la strada percorsa da Bruxelles è stretta, quella che deve percorrere Mosca non è da meno. Da più parti si guarda alla Cina, ma Pechino dispone di molte più alternative a livello di fornitori – su tutti il Turkmenistan per quanto riguarda i gasdotti e il Qatar per quanto riguarda il Gnl – e la quota importata dalla Repubblica Popolare non è al momento minimamente paragonabile per entità a quella destinata all’Europa. Non solo: il prezzo pagato dalla Cina per il gas russo è molto inferiore a quello versato dall’Unione europea. Mosca punta ad aumentare le esportazioni verso il gigante asiatico, ma anche in questo caso non si tratta di prospettive di breve periodo. L’India è un altro potenziale partner energetico per la Russia, ma le difficoltà sul fronte del gas naturale sono notevoli, non solo per la distanza geografica. Qualora Mosca puntasse a esportare Gnl verso il territorio indiano, come sta programmando di fare verso il Pakistan, sarebbero infatti necessari ingenti investimenti per realizzare gli impianti di rigassificazione. Un’eventualità altamente improbabile, considerate le attuali difficoltà finanziarie della Federazione legate soprattutto alle sanzioni internazionali.

Come detto, la partita è estremamente delicata. Se dal punto di vista politico la propaganda gioca un ruolo importante, come i casi kazaco e uzbeco citati in apertura dimostrano, su quello energetico a pesare è esclusivamente la realtà sul terreno e quest’ultima vede entrambi i giocatori – Russia ed Unione europea – confrontarsi avendo a disposizione opzioni limitate. A pesare sul successo di Bruxelles sarà soprattutto la coesione europea. Un fattore di cui anche Putin è consapevole, come dimostra l’avvertimento inviato con il taglio delle forniture a Polonia e Bulgaria, e che dovrebbe portare i Paesi membri dell’Ue a lavorare di concerto per togliere la terra sotto i piedi, perlomeno dal punto di vista economico, all’inquilino del Cremlino.

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