L’accoglienza dei profughi dall’Ucraina e l’adozione, per la prima volta in vent’anni, di una direttiva che riconosce la protezione come automatica conseguenza degli eventi, non ha nulla a che fare con la politica europea che ha sempre riguardato e continua a riguardare tutti gli altri esseri umani bisognosi di protezione. E se la pandemia prima e poi la guerra hanno imposto altre priorità agli Stati membri, il problema rimane. Anzi, si complica. Al centro, concetti noti come l’esternalizzazione delle frontiere, che l’Unione europea persegue ormai da anni, e altri più recenti, che fotografano gli effetti della scelta di delegare ad altri il controllo dei confini e le procedure di asilo, come il “confinamento” dei migranti nell’immediato esterno dell’Unione. Ma anche il rischio di consegnare a regimi autoritari uno strumento di pressione o addirittura di ricatto nei confronti dell’Europa.

La pratica e le sue conseguenze, a partire dalla lesione di diritti fondamentali come la richiesta d’asilo, saranno al centro del convegno internazionale ‘I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione europea’, che potrà essere seguito online sabato 7 e domenica 8 maggio e avrà luogo a Zugliano (Udine), promosso dalla rete RiVolti ai Balcani, da Rete DASI FVG e dal Centro Ernesto Balducci, in collaborazione con Articolo 21. Basta leggere gli interventi in programma per capire che, comunque la si pensi in merito alle politiche migratorie, l’Unione europea si è infilata in un pericoloso paradosso: per evitare conflitti tra gli Stati membri, “sceglie di non scegliere” affidando la politica migratoria europea a chi europeo non è, portatore di differenti agende politiche e interessi. “Una strategia cieca e autolesionista perché crea permanente tensione nei paesi che si prestano a contenere e respingere i flussi e che rafforza lobby autoritarie come nel caso della Turchia”, spiega Gianfranco Schiavone, studioso delle migrazioni internazionali tra i promotori del convegno. Cosa c’è dietro? In parte si tratta di un meccanismo al quale siamo sempre più abituati, quello dell’emergenza.

Emergenza che nel caso dei migranti non trova riscontro nei numeri. Contemporanea al convegno è l’uscita di ‘Respinti’ (Altreconomia), in libreria dal 12 maggio. Gli autori Duccio Facchini e Luca Rondi, prima di esaminare singolarmente le “sporche frontiere” d’Europa, evidenziano alcuni dati. “Negli ultimi dieci anni il numero dei rifugiati che necessitavano del reinsediamento dai campi profughi verso un Paese terzo, ovvero le persone più bisognose”, è aumentato dell’80%, dagli 805.535 del 2011 ai 1.445.383 del 2021 (censimento Unhcr). Ma si stratta, avvertono, di una “lista bloccata”: “Nel 2020 i reinsediamenti effettuati sono stati infatti appena 34.383: il 2,39% del “necessario”. E l’Europa? Sta a guardare. Anzi, non vuole nemmeno vedere. Sempre nel 2020, nella comunità di Stati che conta più di 500 milioni di abitanti “ne abbiamo fatti arrivare 20mila”. E commentano: “Questo dà una misura di quanto noi non siamo disponibili ad aprire vie sicure e regolari”. Mentre nel mondo aumenta considerevolmente il numero delle migrazioni forzate, spinte da guerre, persecuzioni o cambiamenti climatici, la percentuale accolta da tutto l’Occidente, cioè la parte più prospera del pianeta, non supera il 14%. In Europa sono in calo sia il numero delle richieste di asilo, sia quello degli ingressi irregolari. Un buon risultato se si considera l’immigrazione come un danno da ridurre.

Gli ostacoli a un simile traguardo non sono pochi. Intanto perché tocca rimanere all’interno dei Trattai che l’Unione europea si è data e al diritto internazionale, che riconosce la richiesta di asilo come un diritto della persona. Ma siccome il confronto tra gli Stati membri porta in direzione opposta rispetto ai nobili principi fatti di norme e commi, per evitare il cortocircuito ci si è rivolti a chi ha meno vincoli giuridici. “La Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato, la base del diritto internazionale umanitario”, ricorda Monica Massari, professoressa di Sociologia presso il Dipartimento di Studi Internazionali all’Università di Milano e tra i relatori del convegno. Invece l’Italia, con un memorandum già rinnovato, ha delegato al governo libico il contenimento dei flussi che puntano al Mediterraneo e ha investito sui cosiddetti “respingimenti indiretti”, appaltandoli alla cosiddetta guardia costiera libica. Nessun ripensamento hanno finora portato le sentenze di tribunali italiani in cui si definiscono “lager” i campi per migranti in Libia, né i report dell’Onu. “Eppure si stringono accordi con paesi dove, ad esempio, la carcerazione di massa è uno strumento sia per arginare il dissenso interno, sia per arginare forme di dissenso rappresentate dai migranti che sfidano con i loro corpi questo regime restrittivo in materia di mobilità e attraversamento dei confini”, continua la docente, ricordando che nella maggior parte dei paesi coi quali l’Ue o i suoi membri stringono accordi “il diritto d’asilo è quasi sempre negato”. E che “buona parte di questi accordi non sono noti, non hanno approvazione a livello parlamentare e non si confrontano con il dissenso, ma si accontentano di essere giustificati dall’emergenza”.

Di accordi l’Ue ne ha fatti con Turchia, Tunisia, Bosnia, Niger e non solo. A questi si devono aggiungere accordi ancor più informali, utili a riammissioni e respingimenti sulle frontiere della Grecia, della Slovenia, della Croazia, della Serbia, per reazioni a catena che portano sempre fuori dai confini dell’Unione. Nel rispetto dei principi europei, bisognerebbe quantomeno “verificare la reale capacità dei paesi di fornire una protezione giuridica effettiva, il rapporto tra popolazione e numero dei rifugiati, la ricchezza complessiva del Paese e la capacità di integrazione dei rifugiati accolti”, spiega Gianfranco Schiavone. Ma non si fa, né si aiutano questi paesi a costruire un sistema di accoglienza sostenibile e a porre le condizioni per il diritto di asilo. E tantomeno si pongono vincoli o si richiedono particolari garanzie a fronte degli investimenti che l’Europa e i suoi singoli membri elargiscono ai governi che collaborano. “Si danno fondi a paesi dai connotati discutibili, ufficialmente destinandoli a percorsi di accoglienza o per finanziare i rimpatri in sicurezza”, spiega l’avvocata Caterina Bove, membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi). “In realtà si maschera un vero e proprio finanziamento per impedire le partenze e senza preoccuparsi di come i soldi vengono utilizzati”.

Se questa è la strategia e se non c’è alcun piano per redistribuire in Europa i più vulnerabili e sgravare i Paesi più esposti a una crescente presenza di rifugiati, che fine fa oggi chi viene respinto dall’Unione europea in modo diretto o più spesso per mano altrui? A questa domanda vuole rispondere il convegno, che analizzerà diversi casi Paese. “Rimane in Paesi-contenitori che non possono o non vogliono assicurare ai rifugiati né una effettiva protezione giuridica, né un percorso di integrazione sociale”, scrive Schiavone, che ha scritto la prefazione al libro ‘Respinti’. Così, in un mondo che non ha certo bisogno di altri campi profughi, l’Ue investe per crearne di nuovi oltre la porta di casa. “Dove si fornisce la minima sopravvivenza materiale, in una dimensione di sospensione dei diritti fondamentali”, spiega chi ha collaborato anche all’ultimo report di RiVolti ai Balcani sul Temporary reception Centre di Lipa, in Bosnia ed Erzegovina. All’impossibilità di rivendicare i propri diritti vanno aggiunti disagi come “il sovraffollamento, il degrado e l’isolamento rispetto al resto della popolazione, che spesso produce passivizzazione e senso di estraneità oltre ai disturbi psichici riscontrabili nelle persone soggette a lunga detenzione”. Un limbo dal quale le persone non possono tornate indietro, proseguire nel loro viaggio, ma nemmeno essere assorbite dal paese in cui si trovano. “E siccome non ci sono piani per superare questo stato di cose, non si può parlare di emergenza, ma di scelte strutturali e di confinamenti che potenzialmente sono eterni”, riflette Schiavone. L’esempio più lampante è quello della Turchia: sei miliardi di euro spesi dall’Ue per quattro milioni di siriani bloccati. “Se avessimo gestito il problema siriano con una programmazione pluriennale e condivisa tra gli Stati membri, avremmo potuto affrontare anche i numeri attualmente presenti in Turchia. Un accordo avremmo dovuto comunque farlo, ma se avessimo fatto i piani di reinsediamento promessi nel 2016 e mai attuati, magari oggi in Turchia avremmo un milione di persone anziché quattro, e soprattutto non avremmo consegnato un’arma di ricatto al regime di Erdogan”. L’altro, ennesimo, lato della questione è infatti una domanda che stiamo rimandando: “A chi ci stiamo affidando?”

“Non c’è nessuna garanzia: a chi affidiamo persone e fondi quando si tratta della Libia? E la Turchia non ha forse già allentato le maglie spingendo i migranti sulla frontiera greca non appena l’Ue si è mostrata più lenta nell’erogazione dei fondi e nella liberalizzazione di visti ai cittadini turchi?”, avverte l’avvocata Bove, ricordando poi che la risposta dell’Ue è anche peggiore, con la Grecia o la Polonia che attuano “respingimenti totalmente illegali“. Negli ultimi giorni il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha annunciato il rimpatrio di un milione di siriani verso la Siria del Nord, controllata militarmente da Ankara. Ma non sono affari dell’Unione, che ha pagato per escludere che quelle persone potessero chiedere asilo in Europa. E nonostante gli attacchi in varie città turche contro i quartieri abitati dai profughi siriani, la Turchia è ormai considerato Paese sicuro e verso il quale la Grecia riammette chi oltrepassa i suoi confini. “Accettando la regressione sul piano dei diritti umani, l’Unione europea pensa di nascondere la polvere sotto il tappeto. Invece ha costruito una polveriera”, commenta la sociologa Massari. Che si occupa anche del rapporto tra memoria collettiva e violenza: “Non stiamo considerando come la negazione dei diritti e le violenze hanno un effetto diretto su noi europei, sulla nostra etica, sulla nostra comunità politica. Anche perché queste persone in molti casi riescono a combattere queste politiche e arrivano in Europa con un carico di memorie e di esperienze traumatiche impressionante, interiorizzate e vissute in modo drammatico: questa violenza è destinata ad agire anche su noi europei, le cicatrici che molti di loro portano addosso sono ormai incise sul nostro tessuto sociale”.

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