di Claudia De Martino
Secondo l’ultimo sondaggio ufficiale sulla forza-lavoro (PCBS, 2021), in Palestina solo il 44 della popolazione attiva risulta occupata, di cui il 69.9% di uomini e solo il 18.1% di donne (in forte contrasto rispetto agli arabi di Israele, occupati al 69.3% e con una percentuale di donne, oggi al 38.2%, in costante crescita). La disoccupazione è ferma al 26%, ma il tasso dei sottoccupati è in costante crescita (+11%, oggi pari a 536.000 persone) e pari a un terzo degli occupati (34%), con alcune zone particolarmente impattate negativamente dalla pandemia, come il governatorato di Betlemme, penalizzato dall’assenza di turismo, e i governatorati centrali della Striscia di Gaza (Khan Younis e Deir el-Balah, 400.000 e 300.000 persone rispettivamente sui 2.1 milioni complessivi), ormai un’area strutturalmente isolata dal resto del mondo e priva di alcuna prospettiva di sviluppo, tranne i fondi donati da Qatar e Egitto per la ricostruzione edilizia e l’opportunità di ottenere permessi di lavoro in Israele (elevati a 20.000 permessi dal Ministero per la Cooperazione Regionale, per un numero totale di lavoratori palestinesi in Israele pari a 145.000 unità, di cui 21.000 stabilmente impiegate negli insediamenti). La disoccupazione attanaglia soprattutto i giovani (19-29 anni), di cui il 53% non trova una collocazione lavorativa nemmeno transitoria o precaria, non riuscendo nemmeno ad accedere al mercato del lavoro, e colpisce in particolare tra loro i più qualificati, ovvero diplomati e laureati.
Il settore pubblico, che impiega il 20.7% della forza-lavoro attiva, è considerato l’unico fornitore di lavoro dignitoso e protetto, ovvero garantito e permanente, il che rinsalda l’attaccamento di parte della popolazione palestinese, soprattutto in Cisgiordania, all’Autorità Nazionale Palestinese e agli Accordi di Oslo che la mantengono artificialmente in vita. La forte maggioranza della popolazione è, però, impiegata in un settore privato completamente deregolamentato, che non offre garanzie minime, tanto che il 52% dei suoi occupati dichiara di non avere nemmeno un contratto, il 32% di finanziare a proprie spese un fondo pensione e il 29% di guadagnare meno del salario minimo (1450 NIS/409 euro, dati PCBS 2021), anche se quest’ultimo caso riguarda soprattutto i lavoratori impiegati nel settore privato nella Striscia di Gaza (all’81%), i cui salari sono già mediamente inferiori alla Cisgiordania. Infine, il lavoro minorile, ovviamente sommerso, ammonta al 3%.
In questo fosco quadro, il ruolo dell’occupazione israeliana non va sottovalutato: la Palestina, inclusa la Cisgiordania “governata” dall’ANP, non è affatto libera di scegliere una politica economica indipendente da Israele (si consideri il Protocollo di Parigi, 1995, che impone severi vincoli tariffari e fiscali all’ANP), come si evince anche dall’aggravarsi negli anni della bilancia commerciale tra i due “partner”. Gli arresti arbitrari, i coprifuochi imposti dall’esercito israeliano e le lunghe file ai checkpoints, che ostacolano la libera circolazione tra aree e città palestinesi dell’area A, rappresentano un ostacolo alla vita quotidiana, ma anche al libero commercio interno. L’andamento costante e il carattere continuo della repressione israeliana sono evidenti dal numero dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane (circa 10.000), che non accenna a diminuire.
Infine, l’occupazione assume soprattutto la forma delle confische di terra agricola e industriale, che impediscono il sorgere di attività produttive e lo sviluppo economico autonomo dei Palestinesi nelle aree B e C di Oslo, oltre che frenare il settore turistico, ad esempio nella valle della Giordano – una zona potenzialmente adatta allo sviluppo agricolo ma che ospita anche siti storici come la città di Gerico e il fiume Giordano -, prevalentemente occupata da istallazioni militari e impianti industriali israeliani (come la società idrica Mekorot). Senza parlare della Striscia di Gaza, che rappresenta una prigione a cielo aperto di 365 km quadrati al cui destino nessuno – nemmeno il Qatar e l’Egitto, Paesi impegnati nella ricostruzione, che pure procede molto lentamente (50 case ricostruite sulle 1.650 distrutte nel maggio 2021) e l’UE, da sempre impegnata come primo donor internazionale a mitigare i costi delle crisi sanitarie e sociali – si interessa più.
Tuttavia, senza minimizzare l’impatto dell’occupazione israeliana, vi sono altri fattori che determinano strutturalmente il rallentamento dell’economia palestinese, la sua preferenza per un settore informale che non fornisce tutele ai lavoratori e la forte penalizzazione delle donne, soprattutto giovani e istruite, sul mercato del lavoro. Già prima del Covid-19, il mercato del lavoro palestinese si mostrava moribondo (ILO, Report of the Director-General – Appendix 2021): la percentuale di creazione di posti di lavoro, monitorata dal rapporto tra popolazione totale ed occupata, era la seconda peggiore (33.1%) al mondo già nel periodo antecedente la pandemia (2019). Il Covid ha poi impresso un’ulteriore battuta d’arresto, riducendo il numero complessivo delle ore lavorate in settori chiave come turismo e servizi, ma anche i progetti finanziati dai donors internazionali, da cui i Territori palestinesi sono drammaticamente dipendenti.
La pandemia ha dunque trovato un mercato del lavoro squilibrato e duale, in cui dal 2019 è tramontata l’opzione di estendere un minimo di protezioni sociali ai lavoratori del settore privato (attraverso l’arenato progetto di “Legge di sicurezza sociale” del 2016). Le donne sono state sistematicamente marginalizzate sul mercato del lavoro in quanto culturalmente considerate la categoria maggiormente sacrificabile, ma anche perché impegnate a garantire quei servizi domestici e di cura divenuti tanto più essenziali nella pandemia in assenza di sistemi di protezione sociale.
Il Covid-19 ha, dunque, rafforzato le debolezze strutturali della società palestinese: il dualismo tra una minoranza di lavoratori protetti e una maggioranza di precari, il paradosso tra una popolazione femminile sempre più istruita che però continua a rappresentare il segmento più vulnerabile in una società patriarcale, e, tra tutti, un’occupazione israeliana che, dettando le regole del gioco, lascia alla società palestinese scarso margine di manovra per impostare indipendentemente le scelte sul proprio futuro.