Prima dell’invasione dell’Ucraina, per molti di noi europei il 9 maggio era la Festa dell’Europa, nell’anniversario della dichiarazione con cui Robert Schuman, ministro degli Esteri francese, lanciò nel 1950 il processo d’integrazione europea proponendo a Germania e Paesi del Benelux di mettere in comune le produzioni di carbone e acciaio –un modo per tenere sotto controllo, se mai ci fossero, tentazioni di riarmo della Germania.
O anche, per molti di noi italiani, era la giornata della memoria delle vittime del terrorismo, scelta dal Parlamento con un riflesso solipsistico, pensando all’assassinio di Aldo Moro, quando l’attacco allo Stato delle Brigate rosse raggiunse il punto più alto – ho sempre pensato che sarebbe stato meglio scegliere il 16 marzo, il giorno del rapimento di Moro e della strage dei cinque agenti della sua scorta.
Adesso, tutti sappiamo che il 9 maggio è la giornata della vittoria dell’Urss sul nazismo: la giornata dell’orgoglio nazionale russo, in cui sulla Piazza Rossa sfila la potenza militare russa. Una parata immancabilmente aperta dai reduci della Seconda Guerra Mondiale, sempre di meno e sempre più mal in arnese, ma circondati dal rispetto e quasi dalla venerazione delle generazioni successive, figli, nipoti e ormai bisnipoti.
In realtà, Schuman scelse il 9 maggio per la sua dichiarazione proprio perché in Europa occidentale, in Gran Bretagna, in Francia, nel Benelux, ma ovviamente non in Germania, la fine della Guerra si celebra l’8 maggio – in Italia, noi abbiamo il 25 aprile. La discrepanza si spiega coi fusi orari: il generale Alfred Jodl firmò la capitolazione della Germania alle 02.41 del mattino del 7 maggio, nel quartier generale degli alleati a Reims in Francia – Adolf Hitler si era suicidato il 30 aprile. Quegli accordi prevedevano che la cessazione delle ostilità avvenisse alle 23.01 dell’8 maggio, ora dell’Europa centrale: a Mosca era l’una del mattino del 9 maggio.
Sul 9 maggio di quest’anno, c’è stata una ridda di voci che si sono susseguite e contraddette: doveva essere il giorno della pace dopo l’invasione – una speranza più che un’ipotesi, infrantasi sulla prospettiva del conflitto che “durerà mesi, forse anni” su cui s’è attestato dall’inizio di aprile l’Occidente; oppure, doveva essere, al contrario, il giorno della dichiarazione “di guerra totale” della Russia all’Ucraina – opzione questa radicalmente smentita dal Cremlino; infine, il 9 maggio sarebbe stato celebrato a Mariupol, nel segno della vittoria di Mosca e della trasformazione del Mar d’Azov in un lago russo.
Nulla di tutto questo, almeno sembra. Negli ultimi giorni, anzi, il percorso di avvicinamento è stato ‘riduttivo’, di segno contrario. Un tratto che accomuna Mosca e Kiev in queste ore è la cautela nell’accostarsi alle celebrazioni del 9 maggio. Le autorità ucraine invitano i loro cittadini a “prestare particolare attenzione agli allarmi l’8 e il 9 maggio”, perché “in quei giorni, gli occupanti russi possono organizzare massicci bombardamenti per aumentare il terrore fra i civili”. E Kiev afferma che Mosca sta organizzando una parata a Mariupol, per fare sfilare anche “nostri cittadini prigionieri” – s’è pure parlato di prigionieri ucraini esibiti a Mosca sulla Piazza Rossa, come avveniva nei trionfi degli imperatori romani.
Il Cremlino, invece, sta cancellando le manifestazioni nelle zone del conflitto: dopo avere annullato quelle nelle autoproclamate repubbliche filorusse di Lugansk e Donetsk, perché – si ammette – “è ancora impossibile tenerle”, ha pure giudicato impossibili “per ovvie ragioni” quelle a Mariupol.
Alle cancellazioni nel Donbass corrisponde l’accresciuta enfasi della parata sulla Piazza Rossa, che, nelle intenzioni del presidente russo Vladimir Putin, dovrebbe inviare all’Occidente un messaggio da “giorno del Giudizio”: caccia supersonici e bombardieri strategici Tu-160 sorvolano la cattedrale di San Basilio e, per la prima volta dal 2010, viene esibito l’aereo Il-80 ‘Doomsday’, che deve fungere da ‘centro di comando’ russo in caso di guerra nucleare e mantenere sicuri in volo i leader. Inoltre, la pattuglia acrobatica russa s’è addestrata a tracciare sopra il Cremlino una Z, il simbolo dell’ “operazione militare speciale” in corso in Ucraina.
In questo intreccio di date e di voci, in una vigilia del 9 maggio scandita da sirene e boati, moniti e minacce, paura e rancore prevalgono su speranza e concordia. Ma i reduci che percorrono sulle jeep la Piazza Rossa, con il fazzoletto sovietico al collo, le decorazioni sul petto e la consapevolezza che questa, per ciascuno di loro, potrebbe essere l’ultima volta, appartengono alla stessa generazione e sono fatti della stessa pasta dei reduci che – ogni anno sempre di meno – si ritrovano il 6 giugno sulle spiagge della Normandia, a rievocare lo sbarco del ’44: testimoni di una generazione che seppe mettere da parte divergenze e diffidenze per combattere insieme e vincere un nemico comune, letale per l’umanità; e poi per iniziare a costruire un mondo migliore, o almeno un’Europa migliore.
Il 9 maggio è sempre la loro vittoria. Questo 9 maggio è una nostra sconfitta, di figli e nipoti, che stiamo dilapidando l’eredità del loro sacrificio. Una integrazione europea che s’arena tra egoismi e sovranismi. Una cooperazione internazionale che porta il lutto dell’invasione dell’Ucraina. La pace che pareva garantita e che è svanita. E noi europei che, invece di fare le nostre scelte e di prendere in mano il nostro futuro, stiamo ancora ad ascoltare le sirene della prevaricazione o ad aspettare che ‘arrivino i nostri’, che non siamo mai noi.