A scrivere la parola fine, più di vent’anni dopo, è lo stesso organo che chiamò i fatti di Genova col loro nome: tortura. La Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu) ha dichiarato irricevibile perché “manifestamente infondato” l’ultimo ricorso pendente sui processi per il G8 del 2001. A sollevarlo erano stati dieci dirigenti di Polizia condannati per falso ideologico nel procedimento sulla “macelleria messicana” alla scuola Diaz-Pertini, in cui furono pestati a sangue novanta manifestanti inermi. Molti di loro rivestivano incarichi di rilievo all’epoca dei fatti: ci sono il direttore del Servizio centrale operativo (Sco) Francesco Gratteri e il suo vice Gilberto Caldarozzi, il vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi e il primo dirigente della Digos di Genova Spartaco Mortola. Erano stati accusati – ricorda la Cedu – di “aver prodotto prove false al fine di giustificare, a posteriori, l’irruzione nella scuola, la perquisizione e la violenza contro i manifestanti”, tra cui le famigerate bottiglie molotov introdotte nella scuola dalla stessa Polizia. In primo grado, nel 2008, erano stati tutti assolti perché non venne ritenuto “sufficientemente provato che i ricorrenti fossero stati consapevoli della falsità delle dichiarazioni contenute nei verbali dell’operazione”. Nel 2010 la Corte d’Appello di Genova ribalta il verdetto e li condanna a pene tra i tre anni e otto mesi e i quattro anni: contro questa sentenza (poi resa definitiva dalla Cassazione) gli imputati hanno fatto ricorso alla Cedu nel 2012, sostenendo che le condanne fossero state emesse “senza convocare nuovamente i testimoni sentiti in primo grado” in violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo sul “diritto a un equo processo” e chiedendo la revisione del caso.

Il provvedimento è stato emesso il 13 gennaio scorso, ma è diventato noto al pubblico solo oggi. I giudici di Strasburgo – presidente Péter Paczolay, a latere Gilberto Felici e Raffaele Sabato – rinviano per la descrizione degli eventi del G8 alla celebre sentenza Cestaro v. Italia del 2015, in cui la Cedu qualificò come tortura la mattanza della Diaz condannando l’Italia per non aver previsto la corrispondente fattispecie di reato. La Corte d’Appello di Genova, ricordano, “ha dichiarato in primo luogo che le prove raccolte dal Tribunale, vale a dire le registrazioni video e audio, le conclusioni di diverse perizie e le dichiarazioni di alcuni dei ricorrenti, hanno dimostrato che i ricorrenti hanno partecipato attivamente all’intera operazione alla scuola Diaz-Pertini. Inoltre, i rapporti di perquisizione e di arresto, firmati dagli agenti con la complicità attiva dei due dirigenti, contenevano una descrizione oggettivamente distorta degli eventi”. Per quanto riguarda il diritto che i ricorrenti considerano leso, “dopo un’analisi approfondita del materiale del fascicolo e delle osservazioni delle parti, la Corte constata che, sebbene la Corte d’Appello di Genova non abbia riascoltato i numerosi testimoni che avevano deposto davanti al Tribunale, le dichiarazioni di questi testimoni non hanno avuto un ruolo decisivo né nell’assoluzione né nella condanna dei ricorrenti” per i reati di falso. In effetti, la condanna per queste accuse si è basata sulla ricostruzione dei fatti (…) sulla base delle ampie prove documentali e delle dichiarazioni di alcuni dei ricorrenti”.

Anche se la Convenzione richiede “che il giudice che condanna un imputato per la prima volta valuti direttamente le prove orali su cui basa la sua decisione”, spiegano i giudici, “questa non è una regola automatica che renderebbe ingiusto un processo per il solo fatto che il giudice in questione non abbia sentito tutti i testimoni menzionati nella sua sentenza e di cui doveva valutare la credibilità. Si deve tener conto, tra l’altro, del valore probatorio delle prove in questione”, che in questo caso, ritengono i giudici, non è stato decisivo per arrivare alle condanne. Durante i processi a Genova, peraltro, tutti i dirigenti protagonisti del ricorso avevano rifiutato di farsi interrogare in aula. Già in attesa della condanna definitiva alcuni di loro avevano beneficiato di promozioni e scatti di carriera: Luperi era finito a capo del dipartimento analisi dell’Aisi (i servizi segreti interni), Gratteri al vertice della Direzione centrale anticrimine, Filippo Ferri e Fabio Ciccimarra (altri due ricorrenti) a capo delle Mobili rispettivamente a Firenze e L’Aquila. Una volta scontate le condanne e esaurito il periodo di interdizione dai pubblici uffici, inoltre, Caldarozzi era stato nominato vicedirettore della Direzione investigativa antimafia.

Nel luglio 2021 – nei giorni in cui si celebrava il ventennale del G8 – la Cedu aveva bocciato altri due ricorsi proposti da agenti condannati. Uno è quello di Massimo Nucera, l’agente scelto del VII Reparto Mobile di Roma che dichiarò falsamente di aver ricevuto una coltellata durante l’irruzione nella scuola Diaz (mostrando uno squarcio nel giubbotto creato ad arte), e del suo superiore, l’ispettore capo Maurizio Panzieri, che firmò il relativo verbale: a entrambi erano stati inflitti tre anni e cinque mesi per falso. L’altro è quello di Angelo Cenni, caposquadra del VII Nucleo, e di due colleghi parigrado, condannati per lesioni. Nel caso Nucera-Panzieri, la Corte di Strasburgo aveva dichiarato il ricorso irricevibile perché “il ricorrente ha potuto presentare le sue ragioni in tribunale alle quali è stata data risposta con decisioni che non sembrano essere arbitrarie o manifestamente irragionevoli, e non ci sono prove che suggeriscano il fatto che il procedimento è stato ingiusto. Ne consegue che queste accuse sono manifestamente infondate”.

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