Ogni errore dei numeri uno è vissuto come un tradimento. Perché la loro vocazione è quella di strozzare in gola il grido di gioia altrui, non di provocarlo. Perché i loro sbagli individuali sono irrecuperabili, finiscono per fagocitare il destino collettivo, diventano parte di un immaginario comune. Da Donnarumam a Buffon, da Radu a Terracciano, queste sono solo le ultime vittime di un nuovo modo di interpretare il calcio
Le immagini si assomigliano molto ma non sono perfettamente sovrapponibili. Perché fotografano manifestazioni diverse dello stesso fenomeno, raccontano di errori talmente vistosi da risultare grotteschi. Uno stop mancato, un pallone scaricato troppo tardi, un passaggio che mette in porta l’avversario. Cose che si vedono in continuazione in una partita di calcio ma che mutano la propria valenza a seconda della porzione di campo in cui avvengono. È la storia recente di Donnarumma, Buffon, Radu e Terracciano. Quattro portieri che nelle ultime settimane sono entrati nella storia dal verso sbagliato. Perché hanno commesso errori non con le mani, bensì con i piedi. È il rovesciamento di una figura peculiare. L’unico calciatore che può bloccare la sfera fra i guanti frana con gli attrezzi del mestiere degli altri. Siamo oltre l’estremo difensore cantato da Umberto Saba. Il portiere non cade nella difesa ultima vana, diventa innesco per gli attaccanti avversari, fuoco amico che fa saltare in aria sogni di gloria.
Ogni errore dei numeri uno è vissuto come un tradimento. Perché la loro vocazione è quella di strozzare in gola il grido di gioia altrui, non di provocarlo. Perché i loro sbagli individuali sono irrecuperabili, finiscono per fagocitare il destino collettivo, diventano parte di un immaginario comune. Negli ultimi mesi si sta assistendo all’incipit di un nuovo genere letterario degli errori dei portieri. Come Antoine Volodine ha utilizzato una serie di pseudonimi per creare da solo la letteratura post-esotista, il tocco di palla sballato è diventato un filone particolarmente fecondo per gli estremi difensori. È lo specchio di un tempo dove chi difende la porta è chiamato a toccare più palloni di chi gioca in altre zone del campo. Prima dell’errore che ha inchiodato l’Inter contro il Bologna, Ionut Radu aveva effettuato 21 passaggi. Uno in meno di Dzeko. Otto in più di quanto in media ne compie Lautaro Martinez. Sbagliare non è semplicemente possibile, ma probabile. E la prossimità con la linea della propria porta rende il cortocircuito irreversibile. Un rischio da accettare perché residuale rispetto ai benefici che porta avere un portiere capace di gestire il pallone fra i piedi.
Come in una spietata catena evolutiva, ogni epoca ha avuto i suoi errori dei portieri. Infortuni così macroscopici che sono stati ribattezzati pescando a mani piene dall’ornitologia. All’inizio si chiamavano papere. Pare a causa di Vittorio Faroppa, portiere azzurro che in un’amichevole contro la Francia del 1912 subì quattro reti. Tutte evitabilissime. A fine partita crollò a terra e si mise a piangere. Una prestazione non famosa ma famigerata che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita. L’espressione “Disastro Faroppa” diventò di uso comune. Per decenni. Al resto ci pensò il ct Umberto Meazza: “El Vittorio stava in porta con piedi larghi e goffi, sembrava una papera”. D’altra parte, come racconta Antonio Ghirelli, quel pennuto “è un animale che va facilmente in confusione di fronte ad azioni esterne. Come certi portieri sui tiri da lontano. E pure da vicino”.
Poi sono arrivate le “quaglie”, i portieri “uccellati”, in un crescendo di lessico triviale e sgradevolmente canzonatorio che ha creato diversi sottogeneri. I primi sono stati i portieri saponetta, quelli che non riuscivano a trattenere il pallone fra le mani nude o fra i guantoni. Da Sarti, che a Mantova si fece sfuggire la sfera che regalò lo scudetto alla Juventus, a Taibi, che su un tiro placido di Le Tissier si accartocciò per raccogliere il pallone che incredibilmente passò attraverso le sue mani protese e le ginocchia prima di strofinarsi contro la rete.
Dopo, per lo più, i portieri sono “andati a farfalle”, sbagliando i tempi e le misure delle proprie uscite. Walter Zenga, per anni il miglior portiere al mondo, si è visto appiccicare addosso l’etichetta di calamità azzurra per la sua uscita sballata contro l’Argentina nella semifinale di Italia ’90. Un errore che rimarrà nella storia tanto quanto la spiegazione che è seguita: “È stato bravo Caniggia ad anticipare una mia idea di anticipare lui”.
Molto più ristretto l’elenco dei portieri goleador al contrario, come Mauro Goicoechea, lo sconosciuto uruguaiano che Zeman preferiva a Stekelenburg perché sapeva giocare meglio con i piedi e che infatti si fece un’autorete con le mani in Roma-Cagliari 2-4 del febbraio 2013, con tutto l’Olimpico in piedi a cantare “Facci un gol, Goicoechea facci un gol”. Tempi che sembrano ormai lontani. Perché l’incubo moderno degli estremi difensori si chiama gestione del pallone con i piedi. Una tendenza che sovraespone il portiere all’errore, che ci ricorda la fallibilità dell’atleta portando a riscoprirne l’umanità.