La sentenza mette la parola fine al maxi processo Aemilia, aperto con gli arresti del 2015 contro la ‘ndrangheta autonoma di origine calabrese insediata in Emilia Romagna. Sei gradi di giudizio, che hanno tenuto banco tra Reggio Emilia, Bologna e Roma, con oltre mille anni complessivi di condanne stabiliti tra rito abbreviato (sentenza definitiva nel 2019) e rito ordinario, per i due terzi circa dei 220 imputati iniziali giudicati colpevoli
È una sentenza storica quella pronunciata il 7 maggio dalla seconda sezione penale della Corte Suprema di Cassazione. Una sentenza che mette la parola fine al maxi processo Aemilia, aperto con gli arresti del 2015 contro la ‘ndrangheta autonoma di origine calabrese insediata in Emilia Romagna. Sei gradi di giudizio, che hanno tenuto banco tra Reggio Emilia, Bologna e Roma, con oltre mille anni complessivi di condanne stabiliti tra rito abbreviato (sentenza definitiva nel 2019) e rito ordinario, per i due terzi circa dei 220 imputati iniziali giudicati colpevoli: 87 di loro avevano presentato ricorso contro le condanne della Corte d’Appello, datate dicembre 2020, e la Corte di Cassazione si è pronunciata oggi giudicando inammissibili o rigettandone 73.
Negli altri 14 casi, che riguardano singoli capi di imputazione, ha provveduto a rinviare la trattazione specifica alla Corte di Bologna o a ridefinire la pena. È il caso ad esempio del “capo” Michele Bolognino, l’unico tra i personaggi di vertice della cosca che aveva scelto il rito ordinario, definitivamente condannato a 20 anni e 10 mesi, con una riduzione di cinque mesi sulla condanna d’Appello. Non era un esito scontato perché gli avvocati difensori, nel presentare i loro ricorsi, avevano toccato due questioni generali in grado di minare alla base l’intero sviluppo processuale della vicenda, attaccando sia l’impianto accusatorio costruito con cura dalla Direzione Investigativa Antimafia di Bologna che alcune scelte della Corte di Reggio Emilia durante il primo grado di giudizio.
Da un lato la presunta incompetenza territoriale dei tribunali emiliano romagnoli, qualora si fosse accertato che la ‘ndrangheta emiliana agiva a “sovranità limitata”, eterodiretta da quella calabrese ancora insediata a Cutro e di cui Nicolino Grande Aracri, benchè in carcere all’ergastolo, è ritenuto il boss supremo. Dall’altro l’assenza di “Potestas decidendi” del Tribunale di Reggio Emilia, che stabilì le condanne nel primo grado di Reggio Emilia (2018) e che, di fronte ad un prolungato sciopero degli avvocati difensori, sollevò un conflitto di legittimità davanti alla Corte Costituzionale ritenuto fondato dalla Suprema Corte. L’accoglimento di anche solo una di queste due motivazioni avrebbe comportato conseguenze imprevedibili per Aemilia, compresa la necessità di ricominciare tutto daccapo.
Un’altra delle motivazioni difensive rigettate o ritenute inammissibili riguarda la pubblicità del processo e la libertà di stampa. Un processo in cui il lavoro dei cronisti è stato più volte attaccato da imputati e avvocato difensori, sia nell’aula bunker di Reggio Emilia (primo grado) che in quella del carcere della Dozza di Bologna (appello). Sergio Bolognino, a nome di tutti gli imputati costretti alla carcerazione preventiva, nel gennaio 2017 chiese (e non ottenne) il processo a porte chiuse: fuori i giornalisti perché ritenuti al servizio dell’accusa. E due anni dopo fu un avvocato difensore, durante la propria arringa in Appello a Bologna, a parlare di “processo tremendamente inquinato dai media”.
Tra i ricorsi giudicati inammissibili o respinti, 31 riguardavano personaggi con l’accusa più pesante: appartenenza ad organizzazione mafiosa. Vanno così in giudicato le condanne di imprenditori importanti, come Giuseppe Iaquinta, Augusto Bianchini, i fratelli Giuseppe e Palmo Vertinelli, Omar Costi, Mirco Salsi, Luigi Silipo. Gli ex appartenenti alle forze dell’ordine Francesco Matacera, Maurizio Cavedo e Mario Cannizzo. Personaggi della ‘ndrangheta come la latitante Karima Baachoui, Carmine Belfiore, Gaetano Blasco, Gianni Floro Vito. Diversi membri della famiglia Muto e Francesco Amato, che arrivò a minacciare la Presidente del Tribunale di Reggio Emilia Cristina Beretti con la frase: “Morto che cammina”.
È stato dichiarato inammissibile anche il ricorso presentato da Antonio Valerio, il collaboratore di giustizia le cui dichiarazioni al processo sono state fondamentali nella verifica di quanto ricostruito dalla Direzione Investigativa Antimafia, e che ha consentito, con i suoi racconti, l’apertura di nuovi filoni processuali legati ai crimini della ‘ndrangheta operante in Emilia Romagna. Condannato in appello a 7 anni e 5 mesi, la sua appartenenza alla mafia è ostativa alla sospensione dell’ordine di esecuzione e così Valerio dovrà ora scontare il carcere. Le cinquemila pagine delle motivazioni della sentenza di primo grado di Reggio Emilia, nel dicembre 2018, si aprivano con la citazione di una sua frase: “La ‘ndrangheta qui a Reggio Emilia è autonoma, evoluta e tecnologica. Non sono le nostre origini la discriminante, ma ciò che siamo: mafiosi e ‘ndranghetisti, maledettamente organizzati”.