Dopo qualche settimana dall’inizio del primo lockdown si respirava una certa voglia di tornare alla normalità, un naturale desiderio di riprendere la vita di sempre. Tuttavia, col passare dei giorni e il prolungarsi della pandemia, quella normalità ha iniziato a sembrare sempre meno tale; abitudini consolidate in anni di routine hanno cominciato a vacillare e, in quello strano limbo, a dissolversi in uno sfondo indistinto. Pause, silenzi e tempi morti ci hanno costretto ad una nuova sconvolgente esperienza: pensare…
E già, perché la vorticosa frenesia della vita moderna non concede grandi margini di riflessione o spazio per troppi dubbi, mentre viaggiamo a pieno regime. Eppure, quello stop così lungo ha finito con l’instillare dei dubbi perfino a proposito del nostro lavoro, ambito che nessuno è ovviamente disposto a trattare con leggerezza. Nonostante ciò, nel 2021 il 40% della forza lavoro globale (indagine Microsoft) ha considerato seriamente l’idea di licenziarsi, dando vita ad un fenomeno che il professor Anthony Klotz ha definito Great Resignation.
Studi come questi sono certamente molto preziosi per prendere coscienza delle dimensioni e delle ricadute pratiche di un simile problema, tuttavia rischiano di tralasciare qualcosa di più radicale e profondo che, a mio avviso, la pandemia potrebbe aver definitivamente scalfito. Come ama ricordare nei suoi libri il professor Umberto Galimberti, l’idea che il futuro sia sempre positivo è ciò che ha caratterizzato l’Occidente per secoli e che ne costituisce uno dei maggiori tratti distintivi. Questa potente narrazione del mondo che dobbiamo al Cristianesimo ha inondato di senso e di ottimismo la nostra cultura per centinaia di anni, incarnandosi in un vero e proprio inconscio collettivo di massa. Una visione tripartita del tempo – in cui il passato è male, il presente è redenzione e il futuro è salvezza – che sconfinando dall’ambito religioso si è riverberata nella scienza, dove il passato è ignoranza, il presente è ricerca e il futuro è conoscenza.
Un fascio luminoso che ha finito coll’irradiare anche luoghi apparentemente impenetrabili quali la filosofia di Karl Marx, dove il passato è disuguaglianza, il presente è lotta ed il futuro è giustizia. Così come gli studi di Sigmund Freud, dove il passato è trauma, il presente è analisi e il futuro è ristabilimento. Nella nostra cultura insomma, il futuro è sempre positivo ed è il luogo in cui i mali del passato e gli errori del presente trovano finalmente compimento, ovvero un senso. La mia generazione, probabilmente una delle ultime, credeva ancora in quella prospettiva (‘studia e ce la farai’) assaporando gli ultimi raggi tiepidi di quella promessa. Tuttavia è innegabile che negli ultimi vent’anni abbiamo assistito al definitivo tramonto di questo assioma, minato sin nelle fondamenta da crisi economiche a grappolo, precarietà selvaggia, globalizzazione brutale, tracollo culturale generale, continue emergenze pompate dai media e, come ricorda Federico Rampini, da una feroce autocritica degli occidentali stessi che vedono nella propria cultura (pur continuando a farne comodamente parte) il male assoluto.
Come dice Mark Strand, il futuro non è più quello di una volta… Parole cui fanno eco quelle di Miguel Benasayag, il quale afferma (nel suo saggio L’epoca delle passioni tristi) che per intere generazioni il futuro non è più una promessa, ma una minaccia. E quando il futuro si fa incerto e minaccioso perde il suo potere di retroagire nel presente come motivazione, con l’effetto che nessuno è più disposto a sacrificare il proprio oggi, per quanto insignificante, in cambio di un domani che paralizza ogni slancio stagliandosi all’orizzonte come un buco nero. Sebbene sia forse scontato, è opportuno ricordare il monito col quale Nietzsche ci avvisava di guardare bene in faccia il nostro nemico, quel nichilismo in cui manca lo scopo, in cui non c’è risposta al perché e in cui tutti i valori si svalutano.
A 150 anni da quelle parole, sapremo finalmente essere all’altezza della sfida, o vogliamo arrenderci passivamente all’idea che avesse tristemente ragione Emanuele Severino, quando affermava che nella fine del Cristianesimo è iscritto il definitivo tramonto dell’Occidente e viceversa?
Comunque andrà, questo radicale mutamento del futuro è stato colpevolmente ignorato da una classe dirigente europea composta ormai solo da banchieri, affaristi e burocrati di un’ignoranza abissale. Un’élite di spezialisierte idioten che s’illude di arginare con leggi e decreti, fenomeni sociali e culturali che andrebbero “curati” con la filosofia, la psicologia, l’arte, con narrazioni e visioni all’altezza dei tempi, con iniezioni di senso che sappiano motivare, trascinare ed accendere l’animo delle persone. Ma questi tecno-zombie con un sistema operativo al posto del cervello, abituati a conoscere il mondo attraverso grafici e mappe, continuano piuttosto a mortificare e penalizzare le materie umanistiche, privi come sono di amore per la cultura e di reale empatia verso il prossimo.
La scienza e la tecnologia avranno pure migliorato le nostre condizioni di vita (se per vita si intende quella biologica) ma è ormai palese che, come diceva Herbert Marcuse, l’uomo non è più il soggetto della storia, quanto piuttosto il mero ingranaggio di un meccanismo di cui gli sfuggono confini e finalità. Procediamo su un treno sempre più veloce la cui direzione non è dato sapere. Veleggiamo su navi governate da algoritmi verso destinazioni che nessuno ha scelto. La fine delle grandi ideologie è forse un bene, ma se a queste non si sostituisce nessun altro racconto, nessuna visione alternativa, nessun’altra mitologia che iscriva la vita in un disegno (che non sia solo produci, consuma e crepa) il minimo che possa accadere è che la gente sia disorientata, spaventata e annichilita.
Il benessere e la modernità ci hanno spinto a credere di non avere più bisogno di cose che hanno accompagnato la nostra specie per migliaia di anni. Ma qualunque sia l’ultima innovazione tecnologica che ci propongono dalla California, restiamo pur sempre degli esseri il cui cammino è stato accompagnato da storie, miti, racconti, narrazioni, visioni, dallo stare insieme, fare arte, pensare, giocare… Tutte queste pratiche le stiamo abbandonando, relegandole in un passato da cui la tecnologia ci avrebbe finalmente liberato, quando è invece sempre più evidente che essa, nel trastullarci coi suoi balocchi di silicio, ci ha già reso schiavi, mettendoci in catene proprio come Zeus fece con il povero Prometeo.