Gabriele Contini lo conobbi anni fa durante una serata con l’indimenticato e indimenticabile Andrea G. Pinketts (senza la sua sgargiante eleganza Milano è una città più triste), ovviamente eravamo a Le Trottoir alla Darsena a Milano. Ci scambiammo le famose quattro chiacchiere e i rispettivi numeri di telefono. Ci frequentiamo con una certa regolarità, almeno una volta al mese, e io mi porto sempre dietro la videocamera perché Gabriele ha un volto irresistibile, pieno di smorfie e di tic meravigliosi che sono lo stigma della sua perenne inquietudine e angoscia esistenziale.

Mi chiama al telefono quasi ogni giorno, sempre nei momenti meno indicati, quando sono in bagno o mentre schiaccio il pisolino pomeridiano, e mi pone domande alle quali non so mai rispondere, tipo: “Tu che hai studiato filosofia, che cosa mi dici del superamento dell’oggetto?”, oppure: “Ma tu sei felice? Io no, tutti che fanno finta di essere felici, io soffro come un cane, soffro di turbe della cenestesi”. E io magari mi trovo seduto sulla ceramica, alle prese con turbamenti fisiologici da espletare per liberarmi da un peso organico, in quella situazione la mia capacità di analisi filosofica si annulla e cerco sempre di cavarmela con un “Forza Gabriele, forza, vedrai che le cose cambieranno, un giorno diventerai famoso e passerai il tuo tempo a fare autografi”.

Perché Roberto Bolle danza? Per la bellezza, per la grazia e per la gloria. Ogni artista sogna la gloria e anche Gabriele. Colette disse a Truman Capote che era andato a trovarla: “Uno scrittore deve scrivere per la gloria, per che altro?”. Ogni artista sogna quindi di essere riconosciuto, non solo per strada, ma anche dalla società, dalla cultura, dalla vita stessa. Diventare famosi non è un vaneggiamento esistenziale o una futile vanità, ma è l’essenza stessa di un desiderio che sta alla base di ogni espressione artistica: arrivare agli altri, comunicare con una vastità, togliersi dalla claustrofobica nicchia che va bene per i santi ma non per gli artisti che ambiscono alla gloria terrena e di quella celeste fanno volentieri a meno. In fondo è il tentativo di superare la propria solitudine, ci si illude che la celebrità sia il medicamento di una irrimediabile solitudine esistenziale e ontologica.

Io e Gabriele ci siamo rivisti di recente, mi ha dato appuntamento al Piccolo Teatro Strehler per riprendere una sua performance dal titolo Subject/Object. All’appuntamento è venuto anche suo nipote, un ragazzo gentile e collaborativo, che lo ha aiutato ad attaccare sulla sua giacca col nastro isolante un foglio bianco dove c’era scritto Subject/Object e la performance consisteva nel fare una camminata silenziosa con un braccio alzato rivolto a un cielo indifferente, spietatamente indifferente, mentre attorno la città di Milano, ancora più indifferente del cielo, viveva la sua vita meccanica, lontanissima anni luce da noi tre dediti alla registrazione video della performance.

Alla fine di questa camminata durata pochi secondi Gabriele era stremato, spossato, senza più energia psichica e fisica. I cittadini milanesi camminano in altro modo, questo è sicuro, hanno una camminata progettuale, proiettata verso un appuntamento di lavoro, mentre la camminata di Gabriele era baciata dall’insensatezza e dall’assurdo. Questo era il senso della sua performance, almeno per quello che ne ho capito.

Dopo le riprese Gabriele mi ha confidato che avrebbe piacere di partecipare a queste trasmissioni in cerca di talenti, dove una giuria di Scotti o De Filippi o altre celebrità più o meno televisive cercano di capire se chi hanno di fronte può diventare un “oggetto commerciale”, spendibile in qualche modo nella giostra vacua della tv. Non credo che un poeta come Gabriele possa essere assimilato da questo mondo soggetto alle regole dall’audience, ci vedo il rischio di un dileggiamento, di una presa in giro; ci vedo, nella migliore delle ipotesi, un rischio caricaturale, di rendere superficiale ciò che invece è abissale.

Ma è anche vero che ogni poeta ha il diritto di sognare una vita più connessa con il mondo della comunicazione, ogni artista ha il diritto di ambire alla gloria, anche se passeggera e fatua. Io preferirei la castrazione, piuttosto, ma ognuno è fatto come è fatto, e forse questo desiderio innocente (o colpevole) di Gabriele è solo una provocazione, un guanto lanciato contro il volto della frivolezza televisiva. Detto questo, non mi tiro indietro, se un amico chiama io vado e per quanto mi è possibile cerco di aiutarlo nei suoi desideri, ben consapevole che la verità di Gabriele si cela nella sua sofferenza, nella sua solitudine quasi mistica, e che una ribalta effimera non potrà apportare alla sua vita nulla di fondamentale. Ma forse una possibilità di gioco in più, e gli artisti, si sa, amano ogni forma di gioco.

Quindi ecco a voi la “camminata assurda” di Gabriele Contini, filmata dal suo amico Ricky. Vi allego anche un video girato apposta per Maria De Filippi, dove Gabriele recita alcune sue poesie, tratte dalla sua raccolta Poesie dalle urla della psiche. Gabriele, detto tra noi: il pubblico vuole sentire cantare, non è pronto per chi soffre e urla.

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