La storia della famiglia Guran, che è riuscita a sopravvivere nell’inferno di un minuscolo villaggio tra Bucha, Gostomel e Vorzel: "Non dimenticheremo le ‘visite’ dei militari russi, sempre violenti e nervosi. A tutti è stato imposto di denudarsi per vedere se qualcuno avesse addosso tatuaggi nazionalisti dedicati all’Ucraina. È stato difficile accettare questo sopruso, anche se ad altri è andata peggio"
“Chi provava a scappare veniva giustiziato sul posto: vere e proprie fucilazioni”. Se i russi non avessero lasciato l’area a nord-ovest dell’oblast di Kiev, respinti indietro dalla controffensiva ucraina, per Anatolij e Polina, oltre che per la figlia Natalia Guran, sarebbe stato difficile restare vivi. Dove non sono riuscite le bombe e le violenze degli occupanti avrebbe potuto la fame e la mancanza d’acqua. Dopo 37 giorni di assedio totale del territorio che va dal confine bielorusso all’altezza di Cernobyl, fino alle porte della grande capitale ucraina, ridotti senza cibo e alimenti, i due anziani hanno rischiato di non farcela.
Oggi sono ospiti del convento ‘Madre di Dio’ dei Padri Domenicani di Kiev guidato da padre Petro Balog. E possono raccontare la loro storia attraverso una delle figlie che con loro ha trascorso l’inferno di un minuscolo villaggio tra Bucha, Gostomel e Vorzel: “Nessuno pensava che l’invasione dei russi sarebbe arrivata così in fretta e soprattutto proprio nel nostro territorio. Prima del 24 febbraio avevamo saputo che i tempi erano difficili – racconta la figlia seduta coi genitori sulla panchina di un parco di Kiev vicino all’ospedale dove Anatolij, 77 anni, sta curando un cancro in fase avanzata- poi all’improvviso il 25 febbraio abbiamo iniziato a sentire gli aerei e gli elicotteri sopra la nostra testa. Loro vivevano da soli e io in un’altra casa, alla fine ci siamo riuniti quando abbiamo visto il peggio, ma non avevamo pensato a fare una scorta di cibo. Ci ha presi alla sprovvista. È incredibile, due anni fa io e mia sorella avevamo deciso di portare i nostri genitori più vicino a noi e soprattutto via da Zaporizhzhia, così vicina al Donbass e dunque pericoloso. Chi poteva immaginare che l’infermo sarebbe arrivato sulla soglia di casa?”.
Alla fine il ricongiungimento è stato totale nella casa di Natalia dove sono arrivate anche l’altra sorella e la nipote, poi scappate in Polonia. In cinque nascosti nella casa di campagna, le provviste sono state sufficienti per un periodo, ma dopo la terza settimana hanno iniziato a scarseggiare: “Quando sono mancati il pane e l’acqua è stato un problema, abbiamo mangiato ciò che c’era, pasta cotta con la poca acqua racimolata e sempre di sera per non farci scoprire dai russi. I miei genitori _ a parlare è sempre Natalia _, soprattutto mio padre a causa del cancro, dovevano osservare un regime alimentare particolare; ovviamente non è stato possibile, per non parlare delle cure, saltate per settimane e infatti adesso il suo quadro clinico è compromesso. Sì, abbiamo rischiato di morire anche di fame e di sete, ma poi per fortuna il 2 marzo quei carri armati se ne sono andati”. Il Cremlino ha smentito le responsabilità delle violenze dei suoi soldati nell’area di Irpin, Bucha e Borodyanka. Testimoni oculari, e altre prove schiaccianti, inchiodano Mosca alle sue responsabilità.
Al coro unanime si aggiungono anche Natalia Guran, mamma Polina e papà Anatolij: “Non dimenticheremo le ‘visite’ dei militari russi, sempre violenti e nervosi. Appena arrivati in zona hanno occupato alcune case, quelle vuote e non solo. I residenti, nella migliore delle ipotesi, venivano cacciati. Una delle abitazioni requisite era a 200 metri da casa nostra. Da lì andavano nelle case ‘a caccia di neonazisti’, così dicevano. A tutti è stato imposto di denudarsi per vedere se qualcuno avesse addosso tatuaggi nazionalisti dedicati all’Ucraina. È stato difficile accettare questo sopruso, anche se ad altri è andata peggio”.
Il racconto della famiglia Guran è drammatico nella sua estrema lucidità, senza particolari momenti di commozione, ma con grande attenzione ai particolari: “Non posso dimenticare la visita a casa nostra, il cannone del tank puntato sull’ingresso – ricordano Natalia -. Ci hanno portato via tutti gli apparati elettronici, i cellulari soprattutto, li accendevano e guardavano dentro per sapere se eravamo dei potenziali pericoli. Altri telefoni che avevamo nascosto poi si sono scaricati e siamo rimasti isolati perché la corrente non c’era. Tutte le case sono state saccheggiate e danneggiate, alcune demolite con i carri armati che entravano sfondando le pareti. Una villetta dove campeggiava una bandiera ucraina è stata devastata e con essa anche i fiori e le piante, l’ennesimo sfregio. In quei giorni di marzo faceva un gran freddo e ciò li ha spinti a portare via tutti i vestiti da uomo che gli potevano essere utili. Le razzie sono andate avanti per giorni, rubavano qualsiasi cosa, addirittura mobilia, pezzi di cucina, piatti, bicchieri, ogni oggetto che per loro potesse avere un valore. Quando siamo tornati a casa mia l’auto era sparita e dall’abitazione mancava quasi tutto”. E poi le esecuzioni: “Chi provava a scappare veniva giustiziato sul posto: vere e proprie fucilazioni. Una donna di circa 30 anni, nascosta a casa di un vicino, è stata scoperta e violentata. In molti punti, dopo che i russi se ne sono andati via, abbiamo visto a terra preservativi usati. Un nostro vicino, un ex poliziotto, si è impiccato prima che gli occupanti lo trovassero”. La famiglia Guran non tornerà più a vivere lì: “È stato tutto distrutto, i boschi dove andavamo a passeggiare sono pieni di mine. Non ha più senso. Magari ci spostiamo qui a Kiev”.