Mafie

Matteo va alla guerra, le stragi del ’92 e il ruolo di Messina Denaro: così tutto ebbe inizio

Il prequel delle stragi degli anni '90 nel saggio di Giacomo Di Girolamo, edito da Zolfo la casa editrice di Lillo Garlisi, già fondatore – tra le altre cose – di Melampo editore

Quand’è che Matteo Messina Denaro è diventato Matteo Messina Denaro? Quando hanno arrestato Bernardo Provenzano e dunque era rimasto libero il posto di “ultimo grande latitante della storia di Cosa nostra“? O prima, negli anni ’90, quando a questo picciotto trentenne venne affidata una missione particolare: l’organizzazione delle stragi di Cosa nostra. E’ di questo che parla Matteo va alla guerra, edito da Zolfo la casa editrice di Lillo Garlisi, già fondatore – tra le altre cose – di Melampo editore.

Il saggio è firmato dal Giacomo Di Girolamo ed è scritto al plurale: a parlare sono “loro”, i fratelli di mafia di Messina Denaro, i figli della mamma. “La mamma allarga le sue cosce e ci genera, un piede a Castellammare e il suo golfo, un altro piede poggiato nel Belice dei templi e dell’olio”. Che cos’è la mamma? “A Palermo c’erano gli interessi e i proprietari, la plebe e i capitali, sì, ma la mamma era qui, qui era la luna rossa gonfia di attese, qui era l’abbondanza che ci raccontavamo sin nei nostri cunti di bambini, seduti in giro la sera, al chiano”, scrive Di Girolamo. La mamma è il concetto più antico di Cosa nostra nel trapanese, il regno dei Messina Denaro. Per più di vent’anni di questo boss di provincia si era parlato poco, pochissimo. Faceva notizia soprattutto per le passioni da viveur: le belle donne, le macchine veloci, i vestiti firmati, i fumetti di Diabolik.

E invece Matteo Messina Denaro è uno dei mafiosi che custodisce i segreti delle stragi. Non solo quelle del ’93 a Roma, Firenze e Milano. Pure quelle di Capaci e via d’Amelio. Solo che per quasi trent’anni, infatti, la giustizia italiana si è dimenticata di processarlo per gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. A colmare questo vulnus ci ha pensato Gabriele Paci, un magistrato romano che è stato per anni a Caltanissetta prima di diventare procuratore capo di Trapani. Matteo va alla guerra parte dagli atti di quel processo. Non è una biografia e neanche un saggio: è un racconto che riavvolge la storia di Cosa nostra e la riporta al suo epicentro, la provincia di Trapani. Una zona che nel 1986 Paolo Borsellino descriveva così: “Io sospetto – con la mia esperienza e con quello che posso capire – che questa zona sia una specie di santuario delle organizzazioni criminali mafiose di Palermo. Questa è una terra di grandissimi latitanti. A mio parere c’è l’interesse che questa zona abbia poca attenzione da parte delle forze dell’ordine”.