Per questioni professionali ho avuto il piacere di incontrare e sostenere diversi volontari, locali e non, i quali, dopo aver prestato la loro opera per l’accoglienza ai profughi ucraini e, dopo essere stati sugli scenari di guerra, portano nell’anima e nella mente cicatrici profonde.
Stanchi, logori, mentalmente provati dall’esposizione massiccia a racconti di combattimenti, testimoni di atrocità tali da far traballare il loro senso materno o paterno. A volte stritolati dalle conseguenze del disturbo da stress post traumatico. Un’opera dura la loro, quanto la mia nel cercare di aiutarli a non cadere nelle trappole del buio, inghiottiti dai racconti indicibili di madri e sorelle che narrano di stupri, violenze e torture.
C’è Maria che non riesce più a fare il bagno al figlio dopo che una sua coetanea ucraina le ha raccontato le sevizie alle quali è stato sottoposto il suo fratellino. C’è Bogdan che deve essere tenuto per mano perché teme di fare del male alla gente. Marica, dopo aver scaricato quasi da sola diversi pallet di derrate alimentari, non riesce più a togliere le mani dalle orecchie perché ancora sente le bombe. Ci troviamo in un capannone, con pochi fronzoli. Nessuna cravatta, cibo e sigarette. Mangiamo avidamente le piadine offerte dall’associazione che permette questi incontri, dopo quattro, cinque, sei ore di racconto collettivo. Alla fine un autista mi offre le sigarette ‘papiroza’, terribili e amare.
Tutto ciò non è nulla rispetto a ciò che vedo una volta che rincaso e accendo il computer.
La rete è oggi invasa da decine e decine di politici, guitti del mondo dello spettacolo, bellimbusti mediatici sui generis i quali, con un retrogusto di amaro squallore, vanno cavalcano l’onda del dolore bellico in cerca di visibilità e di likes. Le pagine di Facebook, Instagram sono colme di grottesche cronistorie di cicisbei baciapile che documentano minuto per minuto le loro azioni di ‘professionisti del bene’. Un’umanità varia, composta da tipologie diverse.
Ci sono i semprebelli eleganti, abbronzati, in posa di tre quarti con video operatore che li segue financo in bagno, che iniziano ad informare la massa dei ‘follower’ del loro primo gesto di solidarietà sin dalla mattina, intenti ad elargire dolci e giocattoli al ragazzino di turno che deve restare immobile a favore di camera.
I messianici invece sono spesso seduti al vertice di lunghe tavolate riccamente imbandiate, intenti a distribuire il pane e pacchi di delizie con mani elevate. Costoro sono sostenuti nelle loro gesta da follower che fremono in attesa che il loro beniamino si distolga per un attimo dalla recita e conceda anche a loro un bacio virtuale dalla tastiera del suo iPhone immacolato.
E poi, ultimi, ci sono i viaggiatori, quelli che, senza mai nominare autisti, facchini, operatori, volontari che si sono smazzati per riempire i tir di derrate alimentari, mantengono la posa tipo emiparesi facciale, sempre affacciati al finestrino del camion che loro (sì, proprio loro!) hanno guidato sin là, sfidando i mig di Putin, per poi, una volta montato in fretta e furia il video, propinarci la cronaca del loro trionfale ritorno. Incolumi, sopravvissuti alle bombe per potercelo raccontare, accarezzano i piccoli profughi, sempre con l’occhio fisso in camera.
Quasi tutte le tipologie sopradescritte, dopo una doccia salutare, si premurano di ritrarsi accanto al sacerdote di turno, con luce che dalla croce gli illumina il viso adamantino.
Dopo la messa, a letto, pronti l’indomani per nuove bontà diffuse.
Le rete testimonia oggi di questa coattiva e disperante tendenza a voler proiettare per ogni dove l’immagine estroflessa del buono di professione, del puro, del salvatore, figlio di un tempo mediatico nel quale la quotidianità è spesa per ritrarsi, fotografarsi, mettere al corrente quel mondo là fuori di quanto bravi, belli, (truccati) e caritatevoli essi siano. Un io-crazia cementata su basi narcisistiche.
Per fortuna questo squallore è temperato dalle parole del gruppo di uomini e donne che settimanalmente vedo.
“Dottore, l’incontro di gruppo lo facciamo domani, perché oggi muoio dal sonno e puzzo. Devo dormire e lavarmi”. Chi mi dice questo si è fatto 14.000 km in tre settimane, ha portato due camion di medicinali, derrate alimentari e prodotti per l’igiene. Con lui, altri cinque.
Mercoledì non potranno venire, perché c’è da riempire un camion di materiale scolastico e recuperare le ore di sonno. Il capannone è aperto, le piadine pronte. Ci troveremo di sera, in luogo appartato e quasi invisibile. Come le vite di questi malconci supereroi che ho l’onore di sostenere e i visi dei quali nessuno mai conoscerà. Come i loro nomi, che sono di fantasia.