Accusati di calunnia aggravata ci sono tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Secondo la procura avrebbero tentato di indurre Scarantino a dire il falso. Quelle accuse contribuirono a depistare le prime indagini sulla strage di Paolo Borsellino e dei cinque uomini della scorta
“I poliziotti che gestivano la collaborazione di Vincenzo Scarantino nel 1995 sapevano che Scarantino accusò degli innocenti”. È questo il cuore dell’accusa della procura di Caltanissetta nella requisitoria del processo sul depistaggio sulla strage di via D’Amelio. Accusati di calunnia aggravata ci sono tre poliziotti: Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei. Secondo la procura avrebbero tentato di indurre Scarantino a dire il falso. Quelle accuse contribuirono a depistare le prime indagini sulla strage di Paolo Borsellino e dei cinque uomini della scorta. Un depistaggio che diventerà evidente solo nel 2009, quando il boss Gaspare Spatuzza comincerà a collaborare con la giustizia, raccontando di essere lui il vero autore della Fiat 126 trasformata nell’autobomba utilizzata in via d’Amelio.
Perché dunque un balordo come Scarantino, un venditore di sigarette di contrabbando che nulla aveva a che fare con la strage, si autoaccusò di un crimine così efferato? E’ su questo che si basa il quinto processo celebrato sulla bomba in via d’Amelio. Oggi a prendere la parola all’aula bunker del carcere Malaspina di Caltanissetta è ancora una volta il pm Stefano Luciani, che da qualche tempo è pm alla Procura di Roma ed è stato distaccato in Sicilia per seguire le ultime fasi del processo sul depistaggio. Al centro della parte di requisitoria pronunciata oggi c’è la ritrattazione di Scarantino al giornalista di Mediaset Angelo Mangano. Il pubblico ministero Stefano Luciani ha ricordato quando Scarantino, che secondo la Procura sarebbe stato indotto dai poliziotti ad accusare della strage persone innocenti, si mise in contatto con Mangano per confessare che dietro alle sue dichiarazioni c’erano le pressioni della polizia. “Scarantino mi disse – ha raccontato il giornalista ai magistrati in un verbale letto in aula – che era stato torturato, che gli avevano fatto urinare sangue mentre era detenuto a Pianosa, che lui dell’attentato non sapeva nulla e che aveva accusato innocenti”. La ritrattazione avvenne nel 1995. Finita l’intervista con Mangano il cronista ricevette una chiamata dalla questura in cui gli si disse che lo cercava l’ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, all’epoca a capo del pool investigativo che indagava sulle stragi. “Capii che Scarantino era intercettato, altrimenti come avrebbero fatto a sapere della mia intervista?”, ha raccontato Mangano ai magistrati.
“In realtà – rivela il pm – Scarantino non era più intercettato, almeno ufficialmente”. Il falso pentito, dunque, continuava a essere tenuto sotto controllo dalla polizia nonostante non fosse più intercettato ufficialmente. Mangano, nonostante i tentativi di contattarlo di La Barbera, non risponde. Ma dal nastro dell’intervista sparisce la parte in cui Scarantino parlava di la Barbera. “Come è stato possibile?”, si chiede Luciani. Luciani ha ricordato anche il tentativo di ritrattazione che Scarantino fece proprio con uno degli imputati: Mario Bo. Il tentativo di ritrattazione sarebbe degenerato: il falso pentito e Bo avrebbero avuto una discussione violenta che sarebbe finita con l’ammanettamento di Scarantino. “Su quell’episodio non c’è alcuna relazione di servizio – stigmatizza Luciani -Queste vicende confermano quale era lo scopo e la reale funzione della presenza dei poliziotti nella località in cui Scarantino si trovava: cioè controllare il falso pentito che era vittima di umore instabile perchè sapeva di avere accusato persone innocenti e di porre subito rimedio nel caso in cui Scarantino avesse dei cedimenti. Attorno a Scarantino c’era un ‘cordone sanitario’ fatto dalla polizia e volto a controllarlo e evitare si aprissero falle nelle dichiarazioni che era stato indotto a fare ai magistrati”, ha aggiunto il pm.
Nella seconda parte della requisitoria il pm si è concentrato sulle rivelazioni del falso pentito Francesco Andriotta che ha raccontato delle pressioni subite dalla polizia affinché dicesse il falso sulla strage di Via D’Amelio. Secondo la procura, in pratica, il gruppo speciale creato all’epoca per indagare sulle stragi – guidato da La Barbera – creò a tavolino falsi pentiti come lo stesso Andriotta e Scarantino inducendoli a mentire sulla ricostruzione dell’eccidio e ad accusare persone innocenti. Ad Andriotta sarebbe stato chiesto di imparare a memoria e ripetere ai pm quello che la polizia gli diceva di dire sulla strage, in cambio gli sarebbero state fatte promesse di alleggerimento della sua posizione giudiziaria e miglioramenti della condizione carceraria. Davanti alle sue perplessità ad accettare le richieste avrebbe subito minacce e una serie di abusi in carcere. Andriotta, ricorda il pm Luciani, fa nomi e cognomi di chi lo avrebbe spinto a mentire e parla espressamente del ruolo dell’allora capo del pool che svolgeva le indagini, Arnaldo La Barbera, deceduto nel 2002 a causa di una malattia. La Barbera lo avrebbe “preparato” sull’interrogatorio che di lì a poco avrebbe dovuto sostenere con l’ex pm Ilda Boccassini che faceva parte pool di pm che indagava sulle stragi del ’92 e gli avrebbe detto di confermare le dichiarazioni di un altro falso pentito, Salvatore Candura. Il pm ha ricordato tutte le rivelazioni di Andriotta sui tentativi di uno degli imputati, Mario Bo, di suggerirgli le cose da dire: secondo l’accusa il poliziotto gli ha fornito appunti da imparare a memoria in merito a una delle riunione in cui Cosa nostra deliberò l’esecuzione delle stragi.