“C’è stato un periodo che hanno bersagliato i siciliani…Cosa Nostra…Cosa Nostra…e noi … sotto traccia facevamo … ora è da capire che ci hanno preso in tiro a noi calabresi e ora che dobbiamo stare più quieti… quieti… eh… le cose si fanno”. È il 9 settembre 2017 quando Antonio Carzo detto “Ntoni Scarpacotta” spiega i rischi di chi sceglie la ‘ndrangheta come stile di vita. “Uno fino a quando non va in galera e si fa un poco di anni perché uno … 2 o 3 anni … entra e se li fa con … quando incominci a parlare di 15 … 16 anni … già comincia la cosa un poco … al 41 (bis, ndr) … già comincia a essere diverso … non so se tu sei stato al 41… al 41 comincia il cervello a partirti … io mi sono fatto 7 anni e mezzoCuneoAscoli … non solo ho finito i 2 anni e mi hanno mandato a… e mi sono fatto altri 2 anni a Carinola”.

Le intercettazioni sono contenute nelle carte dell’inchiesta “Propaggine” che ha dimostrato come, sin dal 2015, la cosca Alvaro di Sinopoli “avrebbe ricevuto l’autorizzazione per costituire una locale di ndrangheta a Roma”. Una locale che, come spiega il gip Gaspare Sturzo, “avrebbe avuto una reggenza diarchica composta tanto dal Antonino Carzo quanto da Vincenzo Alvaro”. Quest’ultimo è il figlio di Nicola Alvaro, un pezzo da novanta della ‘ndrangheta calabrese, un tempo capolocale di Cosoleto ma soprattutto paciere delle faide del dopoguerra. “Ha riunito tutte le famiglie – si sente in un’intercettazione – e ha creato la pace, ha fatto fare la spartizione. È lui che ha gestito tutta la cosa. Adesso lui (Vincenzo Alvaro, ndr) fa le veci del padre… perché il padre è anziano! Quando c’è un problema tra famiglie… chiamano lui… lui si incontra con le altre famiglie, si mettono a tavolino e discutono del problema fino a risolverlo! Perché non ci devono stare problemi… passa tutto da lui!”.

Nelle montagne con vista Aspromonte come a Roma, la regola è sempre quella di stare “quieti” e lavorare “sotto traccia”. O almeno questo doveva sembrare. Per dirla con le parole dell’indagato Giuseppe Penna, nella capitale “c’è pastina per tutti”. L’importante è comprendere “la necessità è di mantenere gli equilibri all’interno della criminalità organizzata operante nella città”. Che Roma non vuole padroni, Penna lo dice espressamente il 20 ottobre 2016 a Domenico Alvaro, inteso “Micu u Merru”. A lui spiega “come si possano fare gli affari su Roma, penetrando all’interno della Capitale ma senza urtare con i poteri mafiosi di tanti altri gruppi criminali che controllano le varie zone della Città Eterna”. “Non è che io devo comandare qua a Roma… – dice Penna registrato dalla Dia – a Roma io lo so, questi della Magliana sono tutti amici nostri, tutti questi dei Castelli sono…questi dentro Roma, tutto l’Eur che sta tutto con noi…mano mozza…li conosciamo tutti…a Torvajanica…al Circeo…sono amico di tutti e mi rispetto con tutti”.

“La locale romana, – è scritto, infatti, nell’ordinanza di custodia cautelare eseguita dalla Dia – a causa anche dell’estensione del territorio, non ha cercato di imporre un controllo esclusivo e militare del territorio di Roma, come è proprio della compagine territoriale di provenienza negli ambiti regionali di origine, ma senza che ciò possa aver fatto venire meno la capacità di intimidazione mafiosa”. Lo si comprende dalle intercettazioni di alcuni imprenditori parenti di uno dei prestanome degli Alvaro: “Perché lo hanno messo in mezzo… Questi sono calabresi… se ti vogliono mettere in mezzo ti mettono quando, come e dove vogliono”.

Intestazioni fittizie ma anche estorsioni in cui gli arrestati facevano “pesare i rapporti con la ‘ndrangheta”. Le minacce erano all’ordine del giorno: “Non c’è problema…mi mandi in galera! mandami…ma quando esco io…ma prima che io esca… Loro salgono dalla Calabria…. manco li cani!”. È la viva voce di Giuseppe Penna che spiega come ci si rapporta con le vittime: “Nell’ufficio… gli ho messo la pistola in bocca”. E ancora: “Vuoi chiamare i Carabinieri chiamali…me li sbatto al cazzo i Carabinieri…la Finanza?…dove vuoi andare?…la Questura?…dimmi dove vuoi andare gli dissi io che a me non interessa un cazzo che mi vuoi denunciare … inc .. a me mi denunci .. mi arresti… ma io c’ho una nave dietro di me… non rimangono neanche le pinne… glielo dissi in faccia”.

Il gip Gaspare Sturzo tira le conclusioni: “L’insieme delle circostanze hanno dato prova del metodo mafioso e della paura di coloro che si sono trovati sulla strada dei capi e degli associati della “locale ‘ndrina” con a capo la diarchia Carzo e Alvaro, o di Giuseppe Penna che professava la sua aperta vicinanza alla ‘ndrangheta (“dietro di me c’è una nave”), anche spalleggiandosi delle intime amicizie e frequentazioni con Domenico Alvaro detto ‘Micu U Merru’ (già condannato definitivo per 416 bis), impedendo alle vittime così di denunciare alle Forze dell’ordine avendo paura di ritorsioni”. “Siamo di fronte ad un complesso di vicende che a partire dal 2015/2016 si sono sviluppate, alcune ancora in corso sino al settembre 2020 – si legge nell’ordinanza – e comunque con effetti di permanenza quanto a società ed aziende ad oggi gestite con capitali di illecita provenienza, o oggetto di riciclaggio, mostrando come gli indagati sono stati in grado di impedire ogni forma di collaborazione con le autorità giudiziarie, sia delle vittime, come di professionisti non collusi con costoro, nonché degli stessi dipendenti delle aziende e società”.

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