I tre ex appartenenti al gruppo "Falcone-Borsellino" sono accusati di aver indotto, mediante minacce e pressioni, il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio
Prosegue la requisitoria nell’ambito del processo a tre poliziotti accusati di aver depistato le indagini sulla strage di via D’amelio in cui persero la vita il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. “Sono qui oggi quasi come testimone perché l’eccellente lavoro fatto dal collega Luciani non ha bisogno di alcuna integrazione. Sono qui per testimoniare, ed è quasi superfluo, che le conclusioni che saranno oggi formulate – ha detto il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore De Luca – non rappresentano il convincimento isolato di un pubblico ministero ma che tutta la Procura di Caltanissetta le condivide. Non si tratta di una frattura rispetto al passato bensì di una lenta e costante evoluzione che ci porta oggi a contestare la sussistenza dell’aggravante di mafia. I plurimi, gravi, elementi depongono tutti nel senso che il depistaggio ha voluto coprire delle alleanze strategiche di Cosa Nostra, che in quel momento riteneva di vitale importanza“.
L’udienza di oggi si concluderà con le richieste da parte della procura per i tre poliziotti imputati nel processo Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo, accusati di calunnia aggravata dall’aver favorito Cosa Nostra. I tre ex appartenenti al gruppo “Falcone-Borsellino” sono accusati di aver indotto, mediante minacce e pressioni, il falso pentito Vincenzo Scarantino a dichiarare il falso per depistare le indagini sulla strage di via D’Amelio. Per l’accusa i poliziotti sapevano che Scarantino stava accusando degli innocenti. “Tutti sapevano – ha detto De Luca – che Vincenzo Scarantino alla Guadagna era un personaggio delinquenziale di serie C. Parlare di questo gigantesco, inaudito, depistaggio solo per motivi di carriera del dottore La Barbera è la giustificazione aggiornata e rimodulata classica di Cosa Nostra. Non mi dilungo ulteriormente perché il collega Luciani avrà ancora molto da dire e poi mi riservo di fare le conclusioni”.
“La familiarità di Arnaldo La Barbera con i Servizi segreti emerge in maniera chiara attraverso i suoi rapporti con il Prefetto Luigi De Sena – ha detto il pm Stefano Luciani – Rapporti particolarmente stretti tra De Sena e La Barbera- ma come dice Gioacchino Genchi in aula, De Sena era una sorta di mentore di la Barbera”. E ricorda che “il Sisde era solito erogare somme di denaro verso i funzionari che si occupavano di eversione o criminalità organizzata”. E poi spiega ancora che La Barbera, morto diversi anni fa, avrebbe ricevuto i soldi dal Sisde “in nero”. “Che un ufficiale di Polizia giudiziaria prenda fondi riservati in nero per soddisfare sue esigenze di vita privata, prende quel soggetto più o meno compromesso rispetto a quegli apparati che lo foraggiano?”. Secondo il pm Luciani “la figura di Arnaldo La Barbera è una sorta di Giano bifronte, il dirigente della Squadra Mobile di Venezia trasferito a Palermo per risolvere i problemi, diciamo il personaggio giusto al posto giusto nel momento giusto. Quello che emerge dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, in primo luogo da Francesco Di Carlo, che si saldano con i dati documentali e dichiarativi – dice ancora il pm Luciani – aprono una finestra verso il contesto di Cosa nostra che va a saldarsi con le dichiarazioni rese dai collaboratori Vito Galatolo e Francesco Onorato”.
“È assolutamente provato in questo processo, ma lo era già al Borsellino quater di un a dir poco anomalo coinvolgimento del Sisde nelle primissime attività di indagini che hanno riguardato la strage di via D’Amelio – La genesi di questo coinvolgimento viene ricostruita – spiega il pm Luciani – le dichiarazioni rese da questi soggetti sono interessati ad edulcorare la natura di questi rapporti, ma quello che emerge dalle carte è un dato non edulcorabile”. E ricorda le deposizioni di Lorenzo Narracci e di Bruno Contrada. Sul falso pentito di mafia Vincenzo Scarantino e il suo ruolo in Cosa nostra “o i Servizi segreti non hanno saputo fare il proprio mestiere oppure c’era dell’altro…”. Il magistrato si riferisce in particolare di una nota datata 10 ottobre del 1992. “Una nota del Sisde che ha due particolarità quello che dice e quello che non dice”. E poi rincara la dose: “È impensabile che i Servizi di informazione, facendo il loro mestiere, cioè acquisire informazioni sul territorio, non avessero saputo o compreso o capito che Scarantino era, per dirla alla dottor Fausto Cardella, uno ‘scassapagliaro’ di modestissimo spessore criminale o eravamo nelle mani di persone che non sapevano fare il proprio mestiere. Visto che non hanno dato alcun apporto di tipo informativo su fatti gravissimi come le stragi o, ripeto, c’era dell’altro…”.
“La strage di via D’Amelio avviene a 57 giorni di quella di Capaci ed è avvenuta in un momento storico che ha prodotto effetti devastanti per l’organizzazione mafiosa. Se è un dato oggettivo e inconfutabile che questi tempi non coincidono con i tempi dell’organizzazione mafiosa è altrettanto oggettivo che coincidevano con altri interessi – ha detto il pm Stefano Luciani nella requisitoria – Se si vuole avere una chiave per cercare di comprendere le motivazioni che sottostanno a questo depistaggio è utile partire dal confronto tra il prima e il dopo. Qual è il narrato che arriva dalle dichiarazioni di Vincenzo Scarantino e quello arrivato poi da Gaspare Spatuzza? La versione che dà Vincenzo Scarantino e quella che rende Gaspare Spatuzza sulla fase esecutiva della strage di via D’Amelio sono pressoché sovrapponibili. Ciò che non troverete nella versione di Scarantino – ha sottolineato il rappresentante dell’accusa – è la presenza dell’individuo all’interno del garage di via Villasevaglios non conosciuto da Gaspare Spatuzza e dallo stesso individuato come possibile soggetto esterno all’associazione mafiosa. Cosa persuade che questo sia uno dei punti focali della vicenda? Faccio riferimento – ha sottolineato il pm Luciani – alle dichiarazioni rese recentemente dal collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che sono un altro depistaggio e che dispiace non siano state introdotte in questo processo”. Il pentito catanese ha sostenuto di essere presente al momento della strage di via D’Amelio e di avere dato lui il segnale a Graviano, segnalando l’arrivo del magistrato e della sua scorta e di essersi poi allontanato con in mano un borsone con la scritta polizia. Ricostruzione alla quale la Procura di Caltanissetta non ha mai creduto non trovando riscontri.