L'ultimo lavoro del direttore dell'Espresso incrocia romanzo e saggio per raccontare la storia degli uomini e delle donne delle bombe di mafia. Una storia da film che però non è un film. Trent'anni dopo, infatti, sulle stragi restano ancora giganteschi buchi neri che indagini e processi non sono riusciti a illuminare
Via Giuseppe Tranchina è una strada di Palermo che conoscono in pochi. E’ una strada stretta, molto diversa dalle viuzze del centro storico, quelle che arrivano al Politeama o al teatro Massimo. È una strada che non c’entra niente con le vie che arrivano a mare, alla Cala o al Castello. E’ una via secondaria, senza importanza, nel quartiere di San Lorenzo, palazzoni anonimi vicini all’autostrada. Eppure è da lì, in via Giuseppe Tranchina al numero civico 22, che comincia la storia delle stragi di Cosa nostra. Ed è da lì che comincia il suo racconto Lirio Abbate. Il direttore dell’Espresso firma Stragisti (Rizzoli editore), un libro tra che incrocia romanzo e saggio per raccontare la storia degli uomini e delle donne delle bombe di mafia. La storia di Giuseppe e Filippo Graviano, quella di Matteo Messina Denaro, l’ultimo inafferrabile latitante di Cosa nostra. Sono loro gli uomini che ancora oggi, trent’anni dopo, custodiscono i segreti degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, delle bombe che nel 1993 uccisero civili inermi – anche bambini e neonati – nelle stragi di Firenze, Milano e Roma.
Ma perché Abbate comincia il suo racconto da via Tranchina, tra palazzoni e traffico, lontano dalla Palermo da cartolina? Perché quella è la via dove abitava Salvatore Biondino, l’uomo che faceva da autista a Totò Riina. Riina si spostava? A guidare la macchina era lui, Biondino da San Lorenzo. Pure il 15 gennaio del 1993, il giorno in cui Totò lu curtu venne arrestato. Era il 15 gennaio del 1993: i carabinieri entrano in azione e fermano il capo dei capi di Cosa nostra. Un arresto clamoroso, che però poteva essere storico: Biondino, infatti, stava conducendo Riina a casa sua, dove aveva riunito tutta la cupola di Cosa nostra. Pure i Graviano e Messina Denaro. Cosa nostra poteva essere decapitata tutta in un giorno. E invece no: preso Riina, le stragi continuarono.
Nel suo libro Abbate, che ha raccontato tutte queste vicende da cronista di giudiziaria in Sicilia, immagina anche un’altra storia. Una storia in cui Messina Denaro, Graviano, Leoluca Bagarella e tutti gli altri venivano arrestati lo stesso giorno di Riina. Una storia in cui gli investigatori vanno subito a perquisire il covo del capo dei capi, impadronendosi dei preziosi documenti in mano al numero uno di Cosa nostra. È quella una sliding doors di questo Paese: potevamo scoprire tutto e subito. E invece no: trent’anni dopo sulle stragi esistono ancora giganteschi buchi neri che indagini e processi non sono riusciti a illuminare.
Il direttore dell’Espresso, una delle firme più esperte nel racconto delle vicende mafiose, affronta il capitolo dei tanti interrogativi risolti sulle bombe ripercorrendo la storia dei Graviano. Ricostruisce la storia della famiglia di Brancaccio: da Michele Graviano, il padre che si era arricchitto a dismisura tra gli anni ’70 e gli anni ’80. E poi si focalizza sull’epopea dei due fratelli: Filippo, la mente economica, e Giuseppe, il capo, l’uomo che i fedelissimi chiamano Madre natura. Negli anni delle bombe i fratelli girano spesso insieme a un terzo fratello, con cui non hanno legami di sangue: Matteo Messina Denaro. Si muovono a Palermo, Firenze, Milano e Roma, vanno in vacanza sulla Costa adriatica e in Toscana, perfino a Venezia e in Sardegna. Sono boss ricercati, ma si muovono indisturbati. Almeno fino al 27 gennaio del 1994, quando vengono arrestati dai carabinieri mentre sono seduti a cena, con amici, al ristorante Gigi il cacciatore, in via Procaccini, a Milano. Ancora oggi Madre natura per quell’arresto non si dà pace: “Avevo una copertura favolosa”, ripete. Abbate racconta quell’arresto surreale: la sera prima Silvio Berlusconi ha annunciato la sua discesa in campo col celebre discorso dell’Italia “paese che amo”. Ventiquattro dopo prendono i Graviano, i boss delle stragi. Ma avrebbero potuto prendere pure Messina Denaro. All’ultimo, però, il boss di Castelvetrato aveva deciso di andarsene in Svizzera con una donna: una coincidenza che gli allunga la latitanza di ventotto anni. È un’altra sliding doors delle stragi, una delle tante che lasciano più domande che risposte su questa storia.