Ho ascoltato con attenzione le sincere parole di una funzionaria, non so se della locale ausl padovana o afferente alla municipalità, mentre commentava il tragico fatto avvenuto nel quartiere Arcella di Padova, dove Stefano Fattorelli avrebbe tentato di uccidere la ex compagna con diverse coltellate.
La signora intervistata, mettendoci coraggiosamente la faccia, dice al giornalista che in questo frangente “non avrebbero funzionato i sistemi di rieducazione”. Su questo mio spazio mi sono già occupato di questi uomini, premurandomi di approfondirne la struttura clinica che ne motiva l’agire assassino. Nella parole della suddetta, come in quelle di altri giuristi ed operatori sociali sentiti in radio e televisione su questa tragedia, emerge quel vulnus nell’apparato legislativo e legale che necessità di un integrazione clinica. Infatti la legge ancora manca, per comprendere appieno tali fenomeni – delle categorie analitiche di sadismo e perversione che strutturalmente non contemplano il ravvedimento o la colpa – toccando un limite invalicabile nel cercare di circoscrivere reati come questi utilizzando i parametri che le sono propri: colpa, punizione, pentimento, rimessa in gioco nel legame sociale.
Questo uomo non solo ha tentato di massacrare la compagna, ma già ne aveva uccisa un’altra infierendo con 30 coltellate (scrivo appositamente il numero così da irretire le anime belle che, immancabilmente, se ne usciranno con la filastrocca del ‘raptus improvviso’) e si era reso colpevole del reato di stalking con una precedente sua frequentazione. Può bastare per comprenderne la natura seriale e non occasionale?
Ripeto ciò che un analista conosce, rivolgendomi al legislatore e all’uomo di legge che deve decidere sulla loro punibilità. Uomini come questi appartengono alla categoria della perversione sadica esercitata tramite il controllo sulla partner, non contemplando per lei null’altro che lo statuto di ‘oggetto’, di cosa, elemento nella loro mente inalienabile. Per costoro la dimensione di oggetto alla quale degradare la donna è radicale, disumanizzato, privato di possibilità di scelta, posto al servizio di una struttura di personalità la quale ritiene non pensabile, men che meno accettabile, che ella possa distaccarsi da lui.
Nel momento in cui tale distacco avviene, perché la malcapitata scorge, dopo la dissimulazione, la reale entità della mente dell’uomo col quale si è legata, la violenza scatta come ultimativa dichiarazione di possesso. ‘Tu sei mia, non puoi pensare ad una vita autonoma’.
Si noti che la donna – e mai come in questo caso tale evidenza appare nella sua drammaticità – è nelle loro menti un oggetto “intercambiabile”. Oppressa, angariata e messa in scacco, viene uccisa perché lo statuto di oggetto non prevede che ella possa ‘appartenere ‘ qualcun altro, o esercitare un libero pensiero. Una volta eliminata, proprio come uno scarto mal riuscito, questo tipo di uomo ne sceglie un’altra con la quale ricominciare daccapo mettendo in atto il medesimo copione. Questi uomini, come insegna Lacan, si sostengono e basano la loro personalità sulla capacità di generare angoscia nella vittima, giocando sapientemente con le corde della paura come indice di sottomissione. La proprietà si misura dal grado di terrore e paura che egli è in grado di far lievitare nella malcapitata.
Vi ricordate Orwell? “Come fa un uomo ad affermare il suo potere su un altro? Facendolo soffrire, l’obbedienza non basta. Il potere è infliggere dolore e umiliazione. Il potere non è un mezzo, ma un fine”.
Per questo le parole, pur meritevoli, della signora intervistata erano in difetto, perché contemplavano la questione del ‘ravvedimento’ e del ‘cambiamento’, che presuppone una colpa e un cambio di rotta personale. Nulla di tutto questo alberga nella mente del perverso. Nessun Super Io freudiano, nessuna umanità, nessun ripensamento. Egli vive, uccisa la vittima, nella costante ricerca di un’altra pedina del suo scacchiere, un altra sventurata da mettere nel solo ed unico posto che egli concepisce per la donna: una cosa col marchio della sua proprietà, sulla quale accampare diritto di angoscia e controllo assoluti.
Ecco perché il lessico analitico che illustra e descrive il fare perverso, dovrebbe essere padroneggiato dal legislatore, dagli assistenti sociali, dalle forze dell’ordine, da tutti gli addetti che si occupano di questi mondi.
Per quanto cinico possa apparire, la privazione delle libertà è in taluni casi la sola scelta possibile, perché, proprio come nel caso del 41 bis, uomini di tal fatta possono essere inseriti in un percorso che realmente riabilitativo solo a patto che subordinino la loro legge alla legge dello Stato. Il che farebbe perdere a molti di essi il fondamento stesso della loro esistenza, snaturandoli.