Il nuovo episodio del podcast del Fatto Quotidiano ricostruisce quello che è stato il prequel delle stragi del '92: dall'omicidio di Rocco Chinnici, alla stagione del Maxiprocesso, fino alla delegittazione del giudice poi ucciso a Capaci. Nella seconda puntata anche la testimonianza di Maria Falcone e di Giovanni Paparcuri, sopravvissuto all'attentato a Chinnici e poi perito informatico del pool antimafia
Chi furono i nemici di Giovanni Falcone? Soltanto i boss di Cosa nostra? “Giovanni era anche il bersaglio di altri magistrati. Colleghi che vedevano questo giovane giudice emergente come un pericolo per la carriera di chi vedeva nella magistratura soltanto una poltrona assicurata”, dice Maria Falcone, in un’intervista contenuta nella seconda puntata di Mattanza, il podcast sulle stragi del ’92 prodotto dal Fatto Quotidiano. La puntata – online da oggi e disponibile sul ilfattoquotidiano.it, su Spotify, Apple podcast e Amazon music – s’intitola Beirut, come la città del Libano lacerata da una violentissima guerra civile negli ’80.
Il prequel delle stragi – “Palermo come Beirut“, titolano i giornali il giorno dopo l’omicidio di Rocco Chinnici. Il padre del pool antimafia, il magistrato che “scoprì” Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, viene ucciso il 29 luglio del 1983 con un’autobomba, piazzata davanti casa sua: per la prima volta Cosa nostra compie un attentato “alla libanese” nel pieno centro di Palermo. Per ricostruire quello che è il prequel delle stragi del ’92, la seconda puntata di Mattanza parte da lì, facendo parlare l’unico sopravvissuto dell’attentato Chinnici: Giovanni Paparcuri. Ex autista giudziario, Paparcuri diventerà poi il perito informatico del pool antimafia: in questo modo diventa testimone di una stagione irripetibile come quella delle prime grosse indagini sulla mafia. Per anni Paparcuri lavora nelle stanze adiacenti a quelle dei magistrati, vive le pesanti giornate all’interno del bunker del palazzo di giustizia, ma anche i momenti più rilassati, con gli scherzi di Borsellino a Falcone. Poi, con la collaborazione di Tommaso Buscetta, cambia tutto: il Maxiprocesso alza il livello della lotta a Cosa nostra. E Cosa nostra reagisce. “Noi in famiglia non pensavamo mai che il ritorno di Giovanni a Palermo potesse creare un pericolo per lui, per tutti noi. Il lavoro di magistrato era da sempre ritenuto un lavoro tranquillo, al di sopra delle parti, un lavoro che non poteva creare problemi di sicurezza”, racconta sempre Maria Falcone.
La stagione del Maxi – Dopo il Maxiprocesso non è solo Cosa nostra a reagire, come ha ricostruito il magistrato Roberto Scarpinato “Bisogna distinguere due fasi del Maxiprocesso secondo me: la prima è quando il pool arresta gli esponenti della mafia militare, che riscuote un successo e un applauso generalizzato. Poi inizia una seconda fase, quando il pool alza il tiro su colletti bianchi. Da quel momento in poi cambia completamente l’atteggiamento dell’establishment. Inizia una campagna di stampa, mediatica, che comincia ad attaccare il pool e Falcone”. A Palermo comincia la stagione dei veleni. Attorno a Falcone inzia a crearsi terra bruciata: ogni volta che prova a ottenere una qualunque carica, ecco che arriva la bocciatura. Dato in pole position per succedere ad Antonino Caponnetto alla guida dell’Ufficio Istruzione di Palermo, viene bocciato dal Csm che gli preferisce l’anziano Antonino Meli, completamente digiuno in fatto d’indagini su Cosa nostra. “Quando subentrò Meli questi magistrati hanno finito di di esistere. Cominciò a smembrare quelle indagini, mi ricordo solo che si passava il tempo di fare lo stralcio di tutte quelle indagini. Una parte dove andare a Trapani, una a Termini, guarda, si perdeva il tempo così”, ricorda Paparcuri. Dopo la bocciatura del Csm, Falcone fallisce la corsa al posto di Alto Commissario per la lotta alla mafia. Poco dopo, quando si candida al Consiglio Superiore della Magistratura, i suoi colleghi non lo votano neanche.
La delegittimazione di Falcone – Nel 1989 viene invece nominato Procuratore aggiunto di Palermo, ma soltanto perché gli altri candidati avevano revocato la propria domanda per rispetto (o per pudore). Nel giugno di quell’anno, infatti, si era verificato il fallito attentato dell’Addaura: un borsone con 58 candelotti di esplosivo era stato rinvenuto tra gli scogli a pochi metri dalla villa che il giudice aveva preso in affitto per l’estate. E’ dopo quel fallito attentato che Falcone parla per la prima volta di “menti raffinatissime“. L’Addaura diventa il più grande peccato di Falcone. Qualcuno mette in giro una voce: ma non è che quell’esplosivo se l’è messo da solo? E infatti qualche tempo dopo, in tv, una spettatrice del programma di Corrado Augias gli chiede: “Lei dice nel suo libro che in Sicilia si muore perché si è soli, giacché fortunatamente lei è ancora tra noi, chi la protegge?” Falcone risponde amaro: “Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo paese“.
La stagione dei veleni – Quella è un’accusa infamante. Come quelle avanzate dal Corvo, un anonimo che si mette a scrivere lettere in cui sostiene che Giovanni Falcone trasforma i pentiti in killer di Stato. “Questo per capire come la guerra contro Falcone non fu fatta soltanto da personaggi come Riina, ma fu fatta da menti raffinatissime, che stavano dentro ai palazzi di potere, dentro un sistema di potere che si sentiva minacciato dalle indagini che Giovanni Falcone aveva fatto in tutti i campi”, racconta sempre Scarpinato. Oltre alle menti raffinatissime, poi, ci sono anche quelle meno raffinate. Come quella di una vicina di casa di Falcone che scrive una lettera al Giornale di Sicilia. Il motivo della missiva? “Regolarmente tutti i giorni, al mattino, nel primissimo pomeriggio e la sera, vengo letteralmente assillata da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora mi domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?”; scriveva la vicina di casa del giudice che poi lanciava un invito: “Perché i magistrati non si trasferiscono in villette alla periferia della città, in modo tale che sia tutelata la tranquillità di noi cittadini lavoratori e l’incolumità di noi tutti, che nel caso di un attentato siamo regolarmente coinvolti senza ragione”. Ricorda Maria Falcone che Falcone rimase amareggiato: “Nonostante tutti i sacrifici che sta compiendo per la sicurezza degli altri, volevo togliergli anche quelle briciole di intimità di cui ognuno di noi ha bisogno. Questo lo addolorò moltissimo”.