Venerdì mattina è stato presentato in Senato il terzo rapporto della Commissione Femminicidio presieduta dalla senatrice Valeria Valente. Sono stati analizzati 1500 fascicoli di tribunali ordinari e minorili e sono state passate al setaccio tutte le documentazioni di cause di separazione e affidamento dei minori. Una particolare attenzione è stata data anche al linguaggio di Ctu e Giudici. Ne è uscito un quadro problematico che conferma ciò che i centri antiviolenza della rete D.i.Re denunciano da decenni: nei tribunali italiani non si riconosce la violenza, la si confonde con il conflitto e si colpevolizzano le vittime di violenza.

A farla ancora da padrone sono i pregiudizi legati a una visione anacronistica delle relazioni tra uomini e donne. Quanto valore ha la testimonianza di una vittima che denuncia violenze nei tribunali a fronte di un sessismo persistente tra alcune toghe e tra molti consulenti tecnici incaricati dai giudici di svolgere consulenze nelle cause di affido? Si tratta di resistenze dovute alla mancanza di una formazione adeguata dei giudici, un problema già rilevato nel secondo rapporto della Commissione femminicidio presentato lo scorso anno. Le conseguenze di una mancanza di formazione sono state denunciate dall’indagine realizzata tra il 2019 e il 202o dal gruppo avvocate Dire Donne in Rete contro la violenza, Il non riconoscimento della violenza nei tribunali civili e dei minori. Quanto al problema della scarsa competenza anche le Ctu non ne vengono fuori bene. E’ quanto emerso nell’indagine empirica curata da Patrizia Romito, ricercatrice dell’Università di Trieste, da Mariachiara Feresin e Marianna Santonocito.

Il terzo rapporto della Commissione femminicidio è stato realizzato con la collaborazione di Elvira Reale, psicologa, Linda Laura Sabbadini, dirigente del dipartimento per lo sviluppo di metodi e tecnologhi dell’Istat, e dalla giudice Monica Veletti. Elvira Reale ha denunciato le criticità del sistema giudiziario. Vi sono madri vittime di violenza che vogliono tutelare i figli e sono colpevolizzate per gli effetti della violenza commessa dagli ex partner: se i figli hanno paura del padre non si indaga se c’è violenza ma la colpa ricade sulle madri. La accusa di alienazione parentale o di altri costrutti che ne ricalcano i contenuti è diventata la carta vincente che permette a padri violenti di ottenere l’affidamento esclusivo dei figli.

“Nei percorsi non si parla più di violenza ma di conflitto – ha detto Reale – mettendo sullo stesso piano vittima e carnefice”. Ne consegue la decisione del giudici di dare l’affido condiviso esponendo le madri a continue vessazioni da parte di ex violenti e autoritari. Se poi il bambino resiste e non vuole vedere il padre c’è il rischio di un allontanamento coatto, messo in atto con la forza. “Le forze dell’ordine – ha detto Reale – sono incaricate di essere presenti al prelievo del bambino ma non sta scritto in nessun documento che possano prendere i bambini per le braccia e le gambe per strapparli alla madre con la forza. Eppure lo fanno. Al bambino viene tolta la madre anche per mesi e anni mentre viene imposta una frequentazione col padre violento. Si tratta di allontanamenti che lasciano traumi anche indelebili sui bambini”.

“Le donne non sono ancora credute. – ha detto Linda Laura Sabbadini – I problemi riscontrati nei Tribunali ordinari sono gli stessi dei tribunali minorili”. Nei tribunali ordinari in un terzo dei procedimenti sono stati allegati documenti sulla violenza e sulle disfunzionalità genitoriali: tra queste allegazioni il 20% segnalava casi di violenza assistita e, nel 15% di questi casi, i bambini avevano paura di incontrare il padre; eppure nei fascicoli emerge che fin dalla udienza presidenziale si parla di accordo tra le parti. Solo nel 21% dei casi si parla di violenza, nel 18% dei casi si parla di conflitto e nel 58% dei casi non si parla né di violenza, né di conflitto. I minori sono ascoltati solo nel 30,8% dei casi ma solo nel 7% dei casi c’è l’ascolto diretto da parte del giudice, nei restanti casi l’incarico viene dato ai servizi sociali o al consulente tecnico d’ufficio che raramente allega videoregistrazioni, riportando ciò che è emerso dall’ascolto senza alcuna distinzione tra ciò che è oggettivamente emerso dalla testimonianza del bambino e la valutazione dei Ctu (nel 61% dei casi il giudice accoglie pedissequamente ciò che è stato deciso o valutata dal Ctu). “I dati dei Tribunali dei Minori sono coerenti con quelli dei Tribunali ordinari – ha detto Linda Laura Sabbadini – la violenza non viene nominata e quindi rimossa“.

La giudice Monica Veletti ha introdotto il suo intervento ricordando un vecchio film del 1981 di Krzysztof Kieślowski, Destino Cieco, la cui trama, che poi ha ispirato il film Sliding Doors, si dipana sul gioco del destino che un bambino incontra a seconda che perda o prenda un treno. Una metafora che spiega come il destino di una madre vittima di violenza che vuole tutelare i figli dipenda da una sorta di fato, ovvero da quale giudice presiederà le udienze per la sua separazione. Una casualità che può determinare la adeguatezza o inadeguatezza della risposta della giustizia quando si denuncia o si svela violenza nei casi di affido.

“Un giudice – ha spiegato la magistrata Monica Veletti – può decidere di essere attendista, assumere un provvedimento equidistante e disporre l’affido condiviso, magari collocando il bambino con la madre, oppure, venuto a conoscenza di maltrattamenti, può disporre l’ascolto del minore, o ascoltarlo direttamente, o può acquisire prove e testimonianze su quanto ha denunciato la donna o può rivolgersi al pubblico ministero se ci sono denunce o procedimenti penali per violenze per farsi trasmettere gli atti e prevedere incontri protetti tra il padre e il figlio”. Tutto questo nel rispetto dell’articolo 31 della Convenzione di Istanbul che impone di “prendere in dovuta considerazione gli episodi di violenza vissuti dai figli minori al momento di determinare il diritto di visita dei figli”.

E allora che cosa si può fare? Le richieste che i Centri antiviolenza fanno da anni sono chiare.

Titti Carrano, che fa parte del Gruppo avvocate DiRe, ha ottenuto due condanne dell’Italia da parte della Corte di Strasburgo per il caso Talpis e per la sentenza della Fortezza da Basso e ben conosce le dinamiche della vittimizzazione secondaria: “Ci vogliono norme chiare, stringenti e vincolanti che vietino l’affido condiviso nei casi di violenza, che dicano no, tassativamente, alla mediazione familiare o qualunque tipo di conciliazione e che limitino il ricorso indiscriminato alle Consulenze tecniche d’ufficio che semmai devono essere incaricate, quando c’è svelamento o denuncia di violenza, di svolgere valutazioni genitoriali solo su chi agisce violenza senza metter più sullo stesso piano maltrattante e vittima”.

Altre criticità riguardano la mancanza di dati e l’assenza della valutazione del rischio. “La Commissione femminicidio – ha detto Carrano – ha svolto un lavoro egregio per raccogliere i dati e ottenere il campione da esaminare ma manca, nelle raccomandazioni finali del rapporto presentato ieri, quella su una legge che imponga una raccolga dati per i procedimenti civili”.

I tribunali non sono in grado di quantificare in quanti procedimenti per separazione c’è stata denuncia di violenza e in quanti era stata disposta una Ctu. In assenza di dati è molto difficile quantificare e monitorare il fenomeno della violenza, capire le criticità e migliorare il sistema.

“Manca un monitoraggio sugli ordini di allontanamento in sede civile – ha spiegato Carrano – che in base alle nostre esperienze e indagini vengono adottate raramente dai giudici. Un’ultima osservazione riguarda la valutazione del rischio che, come prescrive la Convenzione di Istanbul, è uno strumento di prevenzione importante perché il momento in cui una donna denuncia violenza o si separa è quello di maggiore esposizione al rischio di violenze ritorsive che possono concludersi anche con un femminicidio e figlicidio”.

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