L'INTERVISTA - Il veterinario epidemiologo Vittorio Guberti: "L’allarme scatta perché è una malattia riconosciuta internazionalmente. A seconda dei partener commerciali l’intero stato o esclusivamente l’area infetta viene esclusa dal mercato"
Non pericolosa per l’uomo, perché non trasmissibile, ma potenzialmente devastante per l’economia. Per capire quanto, basti pensare che la peste suina, che colpì la Cina nell’agosto 2018, provocò una perdita di Pil pari all’1,5%. Ed è quello che rischia anche l’Italia se la malattia, che attacca e uccide velocissimamente i suini, non sarà capace di arginare le infezioni dei cinghiali che allo stato riguardano Roma (dentro il Grande raccordo anulare), parte della provincia di Genova e parte della provincia di Alessandria. Comunque è impossibile quantificare quanti siano gli animali infetti e proprio per questo è fondamentale che il sistema di sorveglianza funzioni al massimo.
Vittorio Guberti, già professore all’Alma mater di Bologna, veterinario epidemiologo e attualmente primo ricercatore all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra), sul punto è chiarissimo: “Il costo di questa malattia può essere importante se il virus arriva in aree ad alta vocazione suinicola, basti pensare al possibile blocco delle esportazioni di prosciutto. Attualmente il costo dell’infezione è stimato in circa 20 milioni di euro al mese (fonte Assica) ma il virus potrebbe mettere a rischio l’1-1,5% del Pil italiano se dovesse espandersi. Si tratta ovviamente del worst case scenario, il peggior scenario possibile”.
Questo perché i paesi extra Ue, ad esempio Cina, Russia, Giappone, Taiwan, in caso di infezione escludono qualsiasi importazione. Mentre per quanto riguarda l’Ue la procedura si chiama “regionalizzazione”: quindi vengono escluse dalle esportazioni solo le aree in cui si è registrata l’infezione. Stati Uniti e Canada accettano il principio di regionalizzazione e quindi è possibile mantenere canali commerciali aperti.
Professore, che cosa è la peste suina?
La peste suina africana è una malattia contagiosa ad eziologia virale che colpisce esclusivamente i suini.
Perché se non è pericolosa per l’uomo è scattato l’allarme?
L’allarme scatta perché è una malattia riconosciuta internazionalmente (Organizzazione Mondiale del Commercio) alla cui insorgenza vi è obbligo di denuncia e conseguente blocco del mercato sia degli animali ricettivi sia degli alimenti da essi derivati (ad esempio maiale e salame). A seconda dei partener commerciali l’intero stato o esclusivamente l’area infetta viene esclusa dal mercato. I paesi terzi (come Cina o Giappone) escludono l’importazione di qualsiasi prodotto di origine suina dall’intero stato il prosciutto non può essere esportato. Invece in Ue solo l’area infetta è bandita dal commercio di maiali e loro prodotti: in questo momento il salame di Roma non può essere esportato in Germania, mentre quello di Bologna sì. Quindi il costo di questa malattia può essere terribile se arriva in aree ad alta vocazione suinicola: basti pensare al possibile blocco delle esportazioni di importanti prodotti DOP. Attualmente il costo dell’infezione è stimato in circa 20 milioni di euro/mese ma il virus potrebbe mettere a rischio l’1-1,5% del Pil italiano (fonte Assica, Associazione Industriali delle Carni e dei Salumi). Quattro anni fa la Cina ha perso 1,5% del Pil.
Come si trasmette la malattia?
Per contatto diretto tra animale infetto e sano; per ingestione di carne cruda o insaccati poco stagionati prodotti con animali infetti. Occorre ricordare che in buona parte del mondo, inclusi alcuni paesi dalla Ue, quando il maiale di casa sta male non lo si abbatte ma lo si macella. Un po’ di carne viene consumata fresca, ma la maggior parte viene conservata per salame, pancetta, lardo, lonza ecc… Se parti di queste preparazioni che contengono il virus vengono mangiate da maiali o cinghiali inizia un’epidemia.
Gli animali domestici o altri animali possono contrarre il virus?
In Europa esclusivamente il maiale e il cinghiale, altri suidi nel sud est asiatico. C’è un’altra leggenda che riguarda i lupi che con la predazione diffonderebbero la malattia: non è vero. I lupi se mangiano il cinghiale infetto lo digeriscono e con esso il virus. Anche quando si leccano il sangue del cinghiale sulle zampe, attorno alla bocca gli enzimi nella saliva denaturano la parte esterna del virus rendendolo inoffensivo.
Come ci si deve comportare per evitare di trasmettere il virus della peste chi abita nelle zone infette?
Chi abita nelle zone infette deve prestare attenzione a non camminare nei pressi delle carcasse di cinghiale e cercare di evitare di entrare nel bosco. Normalmente nei boschi infetti si tende a vietare l’ingresso per evitare la contaminazione delle persone. Il virus è molto resistente e – soprattutto in inverno – sopravvive per settimane o mesi.
È sicuro in questo momento mangiare carni suine?
Dipende dal colesterolo. A parte gli scherzi, la malattia ha una letalità così veloce che un animale che si infetta alla sera, alla mattina è già morto oppure sta malissimo ed è quindi facilmente identificabile come ammalato al macello. Soprattutto i suini del supermercato (macellati regolarmente con verifica al trasporto, visita pre-macellazione e controllo degli organi alla macellazione è sicura al 100%).
In ogni caso se l’idea di mangiare un cinghiale con la peste può repellere bisogna sottolineare che il virus non si trasmette all’uomo neppure se ingerito a cucchiaiate.
Come si possono evitare in futuro queste epidemie?
Il virus è diffuso in tutta l’Africa, in Eurasia, in continuità dalla Germania a Timor Leste e a santo Domingo (sia Haiti sia Repubblica Dominicana). Le epidemie si evitano riducendo al massimo la diffusione geografica del virus, meno virus circola minori saranno le probabilità che esso possa contagiare nuove aree. Le organizzazioni internazionali, inclusa l’Ue, devono adoperarsi per ridurre la distribuzione geografica del virus a livello euro asiatico. Un po’ o ci salviamo tutti o non si salva nessuno. Un altro importantissimo strumento sarebbe la vaccinazione, ma per ora il vaccino non è disponibile; è tecnicamente molto difficile ottenere un vaccino con degli standard accettabili.
Cosa significa che il vaccino non è disponibile? È allo studio o in fase I?
Allo studio, siamo indietro. Sono dieci anni che viene detto che fra tre anni lo avremo. Per l’Unione europea si tratta di riuscire a vaccinare i cinghiali, è quello il nostro problema. Non il maiale.
Per i cinghiali che infestano Roma qual è la soluzione? L’abbattimento?
No. La soluzione è graduale e non può essere immediata. La prima è individuare dove c’è il virus, quindi bloccare l’espansione geografica, poi lasciare che la malattia faccia un po’ di morti: il virus è molto letale, uccide il 70-80% degli animali. La malattia riduce in maniera drastica la popolazione. Infine quando sono rimasti pochi animali si valuta se c’è ancora il virus e si abbattono gli ultimi animali altrimenti se il virus non c’è più si chiude il focolaio e la zona ritorna non infetta (in gergo indenne). È una progressione. La strategia di eradicazione si aggiusta man mano che evolve l’epidemiologia fissando degli indicatori che una volta raggiunto permettono alla gestione dell’epidemia di passare ad una fase successiva. Si pensi ad una operazione chirurgica, diagnosi (lastre, risonanza magnetica ecc.), decisione (intervento chirurgico o semplice gesso?) anestesia, tipo di intervento (chiodo, vite, fissatore esterno), risveglio e assistenza immediata post intervento; ricovero post intervento, dismissione, controlli a 30-60gg, fisioterapia, completa guarigione. Non si può pensare che curare una popolazione di cinghiali possa essere meno complesso.
Quindi la zona rossa, le recinzioni sono utili?
Quello fa parte del pacchetto delle prime misure. Ora non conosciamo bene la situazione epidemiologica per questo dobbiamo studiarla, anche sul campo. L’abbattimento può essere inutile, sbagliato e anche dannoso. Adesso nell’area infetta non si deve fare nulla. La probabilità di eradicare una malattia dipende dal numero di infetti e in questo momento siamo all’inizio.
C’è una stima anche approssimata degli infetti?
No, ma un cinghiale normalmente ne infetta altri due. Questo è una dato che dobbiamo acquisire adesso, bisogna fare la sorveglianza verificando il numero di morti. Passo dopo passo. È molto difficile, altrimenti non sarebbe la malattia animale più diffusa al mondo al momento.
Gli allevamenti intensivi hanno un ruolo? Possono essere considerati una bomba a orologeria?
No, non sono mai diventati il serbatoio epidemiologico del virus. Mai. Il serbatoio per il virus sono i cinghiali o l’allevamento rurale. L’allevamento industriale in sé dal punto di vista delle malattie è il meno dannoso. Anche se è eticamente criticabile perché non sempre la vita degli animali ha una qualità sufficiente, ma qui dovremmo aprire un’altra discussione.
Perché si sviluppa il virus?
Questa malattia è legata alla biodiversità. L’Olanda che non ha boschi (per la precisione li ha molto, molto piccoli e recintati) o non ha di questi problemi, la Romania che ha montagne bellissime con gli orsi, lupi e i cinghiali o il nostro Appennino sono più a rischio: vengono penalizzati da un altissimo livello di biodiversità. E quelli che hanno biodiversità hanno più malattie. Quando l’Ue dice che la biodiversità è un punto nodale per la qualità della vita dei cittadini, non deve penalizzare la zootecnia dei paesi con la maggiore biodiversità, la conservazione della biodiversità include anche un grosso rischio sanitario che va compreso e gestito, ma mai penalizzato.