Non è un campione, non lo è mai stato. Non è una bandiera, ha scelto anche lui di non esserlo. Assurdi i paragoni con i vari Francesco Totti, Alessandro Del Piero, Paolo Maldini, Diego Armando Maradona non citiamolo neanche. Allora perché tutta questa prosopopea per l’addio di Lorenzo Insigne? È comunque un figlio di Napoli, che se ne va da casa dopo aver giocato per dieci anni per la squadra della sua città. E meritava di essere salutato.
Napoli-Genoa è stata l’ultima volta di Insigne al Maradona con la maglia azzurra. Vissuta prima e dopo la gara con un trasporto esagerato. Con un pizzico di cinismo e cattiveria, si potrebbe dire che quelle del calciatore sono le classiche lacrime di coccodrillo: è stato lui a firmare il contratto faraonico col Toronto che lo porterà via dalla sua terra. Che, allo stesso modo, i tifosi che oggi lo osannano sono gli stessi che in tutti questi anni non gli hanno risparmiato fischi e critiche, spesso ingenerose. E che il bacio di De Laurentiis sa un po’ di Giuda, considerato che il presidente non ha fatto nulla per trattenerlo, anzi, lo ha accompagnato verso la porta, e magari gliela sbatterà dietro con il contenzioso per quel vecchio ammutinamento del 2019 mai perdonato. Ma nonostante tutte queste contraddizioni, è giusto credere che ci sia anche qualcosa di sincero in quest’addio così esasperato.
La carriera di Insigne – al Napoli e non solo, ma soprattutto al Napoli visto che gioca lì da sempre – è stata segnata da un grande equivoco: lo abbiamo sempre trattato come un campione e un simbolo, ma lui sicuramente non era il primo, e a questo punto possiamo concludere che non è stato nemmeno il secondo. Lorenzo Insigne è stato un ottimo giocatore, i numeri (433 partite, 122 gol, innumerevoli assist) parlano per lui. Però non è riuscito a fare il salto di qualità definitivo, né a livello tattico, né tecnico, e nemmeno mentale. Forgiato da Zeman da ragazzino, non ha più variato il suo modo di giocare, inchiodato a quella mattonella di campo da cui da quasi un decennio fa il bello e il cattivo tempo: “o a tir a gir”, l’assist sul secondo palo, anche tanta corsa e qualche raddoppio, ma sempre lo stesso copione. Recitato a volte alla perfezione, di recente meno bene, un po’ schiavo del suo personaggio. Un giocatore monodimensionale, con indubbio talento, ma senza quei colpi che gli permettessero di fare sempre la stessa cosa senza risultare alla lunga prevedibile. E diciamolo, anche senza la personalità che deve avere un campione e un capitano: il suo palmares si riduce a un Europeo ma non da protagonista, quasi mai decisivo nelle partite decisive. Resta il miglior numero 10 italiano dell’ultimo decennio, ma questo la dice lunga più sul nostro calcio che su di lui.
Arrivato alle porte dei 30 anni, si è ritrovato a un bivio: rimanere in una piazza dove forse non era così benvenuto, in un calcio dove non fa più la differenza ad altissimo livello; oppure andare a prendersi 50 milioni di euro (in cinque stagione) in Canada, un contratto che davvero gli svolterà la carriera molto più di quanto fatto in campo. La scelta era scontata. E anche quella del Napoli, per cui Insigne era diventato più un peso che una risorsa (non solo a livello contrattuale): un giocatore troppo condizionante in campo, e che se si lascia fuori rischia di essere un problema. Certo, le bandiere non ragionano e non si trattano così, ma nel calcio moderno forse semplicemente non esistono più.
È alla luce di questo che dobbiamo vedere il suo addio, e tutto risulterà più comprensibile, e anche più credibile. Sgombrato il campo dagli equivoci, resta il fatto che Insigne è stato un napoletano che ha giocato per il Napoli, e con tutti i limiti suoi e della piazza, ha sempre onorato la maglia, che per lui pesava più che per chiunque altro. C’è stato impegno, passione, qualche gioia, tante speranze, non tutte mantenute: una bella storia di calcio. Quest’addio, in questa maniera, è la cosa migliore per tutti: per Insigne, che va a guadagnare in Canada; per il Napoli, che può voltare pagina; anche per i tifosi, che gli hanno tributato il giusto omaggio, purché non si esageri. Solo applausi. E poi ognuno per la sua strada.
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