Alla politica delle proposte manca da tempo immemore creatività. Un bel problema per il popolo ma anche per i partiti stessi esistenti in Parlamento che saranno a breve impegnati nel difficile compito di differenziarsi per forza, pensando alle elezioni 2023. In marketing si chiama posizionamento. Ciascun partito dovrà dimostrare di avere un’identità, valori e proposte, almeno un pochino diverse dagli altri. Lo dovrà fare per raccogliere quella quota di voto popolare ulteriore rispetto al proprio zoccolo duro di irriducibili (per ogni partito sempre meno). Quella quota che ti vota solo se pensa di ottenere qualcosa di almeno un po’ diverso.

Ebbene a ben vedere da troppo tempo la politica ha sfoderato creatività solo a livello comunicativo e principalmente sotto elezioni. I partiti hanno marchi diversi, colori abbastanza diversi, producono infografiche, meme, slogan un po’ diversi. Ma sono tutte diversità del 3%. Parliamo sempre di pasta secca e al massimo andiamo dallo spaghetto al fusillo. Nulla di più nulla di meno. Perché la sostanza, il grano, è la stessa. Tale e quale al bisogno di un processo industriale per crearsi e vendersi.

Tutti i partiti politici condividono infatti l’idea di governare l’esistente. Nessuno di cambiarlo realmente. E governare l’esistente significa essenzialmente mettere persone a scegliere altre persone che devono decidere cosa altre persone devono fare. Dalla mattina alla sera. Il sistema attuale è però sempre lo stesso da oltre settant’anni, se non di più. Poche le riforme sostanziali e sicuramente mai decisive a livello di sistema economico.

Siamo tutti impegnati a relazionarci con denaro, acquisito perlopiù con lavoro dipendente e solo in parte con lavoro autonomo. Siamo sempre più poveri, noi maggioranza, ma nessuno ha mai sognato di toccare il vero nocciolo della ricchezza: il metodo di accumulo. Sul punto la creatività in politica si è fermata all’invenzione dello Stato che cerca di rendere in servizi o redditi di cittadinanza (al plurale per includere quelli che lo sono ma non si chiamano così vedi NASPI o CIG) qualcosa di quanto i “padroni” – pardon “proprietari” “imprenditori” – accumulano in eccesso tramite (perlopiù) il lavoro dei loro dipendenti e sono tenuti a offrire al sistema come imposte.

Domenico De Masi spesso cita un aforisma che riassume l’antico periodo del secolo scorso dove almeno c’era un dualismo nel mondo: comunismo vs capitalismo. “Il capitalismo sa produrre ma non sa redistribuire. Il comunismo sa redistribuire ma non sa produrre”. Vero. E quindi? E quindi ha vinto il capitalismo e noi ci siamo trovati con una minoranza sempre più esigua, ad accumulare capitale – invenzione umana capace di sovvertire le leggi della biologia dove ogni cosa che permane ha una naturale degradazione – e una maggioranza sempre più silente che fatica ad andare oltre il sopravvivere.

Eppure un modo per far redistribuire meglio il capitalismo o produrre meglio del comunismo, ci sarebbe: basterebbe superare la divisione concettuale – altra invenzione umana – tra imprenditore e lavoratore.

E’ una regola del sistema quella divisione, come direbbe Nuval Harari “è una nostra invenzione” quindi la possiamo cambiare. Anche perché mantiene il feudalesimo nell’unico settore della vita dove sicuramente servirebbe più uguaglianza.

Eppure la politica acreativa lo tratta come un dogma. Quando ad esempio un imprenditore vuol chiudere lo stabilimento e mandare a casa i dipendenti, la politica ipocrita che fa? Tavoli. E i tavoli che fanno? Cercano un altro imprenditore che si prenda i lavoratori, come prende i macchinari e le sedie. E nel frattempo ci mette qualche bel denaro pubblico come ammortizzatore sociale (la cassa integrazione). Praticamente, al posto di risolvere la precarietà di quei lavoratori, trova per loro solo un altro padrone-imprenditore (sovvenzionandolo un po’ per rendere meno rischiosa l’avventura).

Davanti a scene così mi sono sempre chiesto perché non superare quel dogma.

Basta un cambiamento del sistema, in due mosse. Unire il contratto di lavoro al contratto di società e il contratto di società al contratto di relazione.

Difficile da capire detto così? Lo spiego meglio: quando una società ti assume, a tempo indeterminato, tu ne diventi socio. Quanto socio? Una quota progressiva ogni anno, come il tfr. E più progredisci nelle quote più avrai voce in capitolo in assemblea soci più potrai decidere le sorti del posto in cui passi tre quinti del tuo tempo da sveglio (con l’attuale età pensionabile e le prospettive future… per almeno quarant’anni). Come redistribuisce questo sistema? Con gli utili. E se la società perde? Beh è un problema della società. Quindi te, da socio, ti devi impegnare democraticamente all’interno per fare in modo che i problemi non ci siano.

Questo sarebbe “unire il contratto di lavoro al contratto di società”.

Cos’è invece “unire il contratto di società al contratto di relazione”? E’ dire che può avere quote di una società solo chi ha con questa un rapporto economico reale. Compri i miei prodotti? Puoi pagare un po’ del prezzo acquisendo mie quote. Io compro i tuoi servizi? Posso pagare un po’ del prezzo di questi acquisendo le tue quote. L’azionariato diventa come la cittadinanza, non si può dare via solo per speculare. Quindi via l’azionariato dal mercato finanziario.

Sono due idee creative per risolvere un grande problema reale: farci fare economia – cioè scambiare beni e servizi – e redistribuire meglio il benessere affinché nessuno sia bisognoso. Sono idee eretiche? La creatività per sua natura cerca sempre di essere prima di tutto vera e solo dopo “accettata”.

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