Dal punto di vista giornalistico, l’esito delle elezioni parlamentari libanesi suggerisce un titolo quasi ovvio, dovuto, perché la notizia è senza dubbio la netta ritrazione della coalizione di maggioranza: il fronte guidato dai partiti sciiti di Amal ed Hezbollah, che insieme ad altri partiti cristiani, armeni e drusi formava la maggioranza con 71 dei 128 seggi del Parlamento libanese, rimarrà al di sotto della soglia di 64 seggi, non potendo quindi più contare, sulla carta, sulla propria capacità di “direzione” dell’esecutivo. Un declino che si spiega soprattutto con il ridimensionamento di tutte le componenti “ancillari” del potere sostanziale di Hezbollah in Libano, perché se è vero che il partito filo-iraniano ed Amal hanno confermato tutti i seggi riservati ai parlamentari sciiti, a venir meno è stata la fiducia dei libanesi nelle componenti non sciite della coalizione di maggioranza, che ne legittimavano e rafforzavano la posizione per molti versi apicale all’interno del sistema confessionale libanese.

Il più importante di questi partiti è il Fronte patriottico libero (FPM) del presidente Michel Aoun, che ha proseguito nel trend declinante iniziato alle ultime elezioni municipali. Il FPM, guidato dal genero del presidente Gebran Bassil, è sceso di un seggio, passando dai 18 del 2018 ai 17 di domenica, perdendo così la posizione di primo partito cristiano del Paese. I cristiani libanesi di Beirut, Jounieh, Jbeil, Batroun e delle regioni settentrionali hanno nuovamente punito il partito del presidente, imputandogli proprio una posizione ormai servile nei confronti di Hezbollah (con il cui leader Hassan Nasrallah il presidente firmò un memorandum d’intesa nel 2006, sancendo l’alleanza). Sentimenti che si sono ulteriormente rafforzati a partire dall’esplosione al porto di Beirut, e ancor più in seguito agli scontri armati andati in scena lo scorso ottobre nella capitale, quando sostenitori di Hezbollah e Amal – che avevano organizzato una marcia di protesta contro il giudice incaricato delle indagini sull’esplosione, Tarek Bitar – hanno preso parte a un pomeriggio di far west contro sostenitori delle Forze Libanesi, partito della destra nazionalista cristiana, tra i suoi più accesi critici.

Sono proprio le Forze Libanesi (LF) di Samir Geagea i principali vincitori di queste elezioni, perlomeno dal lato dei partiti tradizionali: nati come milizia durante la guerra civile – e a lungo scontratesi proprio con l’esercito guidato dall’allora capo Michel Aoun -, le LF sono il “partito azienda” dell’unico leader militare di alto profilo ad aver pagato per i propri crimini durante la guerra civile. Samir Geagea, riconosciuto colpevole del massacro di Ehden, ha infatti passato 11 anni in isolamento carcerario tra gli Anni 90 e il nuovo millennio, riuscendo così nel tempo a costruirsi una duplice reputazione: quella di soggetto più “esterno” al sistema di potere corrotto (la moglie Sethrida ha guidato il partito al suo posto, detenendo il seggio parlamentare e tenendosi al di fuori di una serie di governi assai discussi, specie gli ultimi) e quella, appunto, di principale oppositore di Hezbollah e del FPM, accusato di esserne succube.

Le LF, che proprio per questo loro netto orientamento anti-iraniano vengono sostenute anche dall’Arabia Saudita, sono passate dai 15 seggi del 2018 ai 19 di questa tornata, diventando così il primo partito cristiano: è evidente che questo – la posizione di primo partito cristiano che passa dal partito più vicino ad Hezbollah a quello più lontano – sia uno sviluppo potenzialmente esplosivo e dai risvolti in parte ancora ignoti. Alcuni di questi si capiranno a novembre: il 31 ottobre scade infatti il mandato presidenziale di Aoun – la cui presidenza è stata fortemente sostenuta da Hezbollah – ed i parlamentari saranno chiamati ad eleggere un nuovo Capo di Stato, tra i cui candidati ci dovrebbe essere anche lo stesso Geagea. In questi mesi, i toni e le tensioni tra sostenitori e personalità legate alle LF ed Hezbollah si sono inasprite in modo considerevole, anche al di là degli scontri armati di ottobre scorso.

Il Partito di Dio ha perso voti in aree in cui normalmente ottiene quasi un plebiscito, perdendo il sostegno di deputati di lungo corso che erano funzionali alla sua rete di potere e consensi: ad esempio, non è riuscito a entrare in Parlamento Elie Ferzli, che ha perso il suo seggio cristiano ortodosso nella Beqaa occidentale dopo più di venti anni, e soprattutto Talal Arslan, leader del Partito democratico druso, storico alleato di Hezbollah, eletto sin dal 1992 grazie anche a un accordo intra-settario con Walid Jumblatt, a capo dell’altro partito druso (il PSP), che però di Hezbollah è divenuto nel tempo avversario. Arslan ha mancato clamorosamente l’elezione nel distretto dello Chouf-Aley, sua roccaforte, a vantaggio di un volto nuovo: il giovane Mark Daou, attivista ambientale e ricercatore della American University di Beirut, parte della lista “Uniti per il cambiamento”. Un altro risultato sbalorditivo rispetto alle attese è quello ottenuto da un altro esponente della società civile: Elias Jradi, oculista, anche lui membro della medesima lista, ha ottenuto il seggio cristiano ortodosso nel sud del Paese, un’area a stragrande maggioranza sciita, nella quale è stata costruita la dimensione e la narrativa di Hezbollah come liberatore dall’invasione israeliana. A farne le spese è un altro “associato” di lungo corso di Hezbollah, vale a dire Asaad Hardan, eletto per decenni tra le fila del Partito Nazionalsocialista siriano (SSNP).

I candidati indipendenti o raggruppati in liste della società civile, emersi gradualmente a partire dalle proteste anti-governative di ottobre 2019, hanno superato le attese, ottenendo una decina di seggi, contro i due o tre che molti osservatori stimavano alla vigilia. Questo introduce un’importante questione, cioè il delicato mix tra la ulteriore frammentazione dell’arena parlamentare, che rischia di produrre un ulteriore stallo a detrimento delle riforme urgenti di cui ha bisogno il Libano, e la strategia che i nuovi rappresentanti della società civile vorranno perseguire: esiste infatti già una rilevante frattura, legata in sostanza alla possibilità di allearsi tatticamente con le stesse LF. La componente più destrorsa spinge per questa soluzione, mentre quella che al momento appare maggioritaria considera le LF una espressione del sistema di potere settario che vorrebbe abbattere, non meno compromessa di tutte le altre. Va poi ricordato che i vertici di Hezbollah hanno a lungo alimentato una narrativa secondo cui buona parte del movimento di protesta sorto nel 2019 sarebbe in realtà una sorta di “ariete” delle mire revansciste di un partito anti-iraniano, filo-saudita (nonché talvolta ancora accusato di collaborare con Israele) ed escluso dagli ultimi esecutivi, cioè le LF. Un’alleanza strutturata tra questi ultimi e una o più liste civili rischierebbe di cementificare questa percezione, aumentando la polarizzazione nel Paese.

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