Mafie

‘Giovanni e io’, il nuovo libro di Pino Arlacchi su Falcone è un potentissimo atto d’accusa

L’autore è molto prestigioso e se dice di essere stato la persona a cui Giovanni Falcone rivolgeva le proprie confidenze “senza riserve o segreti”, il suo confessore speciale, dobbiamo credergli.

Già deputato e senatore Pd, ritenuto una delle massime autorità sulla sicurezza, estensore del progetto esecutivo della Dia – la Direzione investigativa antimafia -, vicedirettore generale dell’Onu, amico e collaboratore dei giudici Chinnici, Falcone e Borsellino, Pino Arlacchi ha scritto un libro importante, Giovanni e io, uscito per i tipi di Chiarelettere. È il racconto di una amicizia intensa e bella e vi si trovano anche molte cose interessanti, e non poteva essere diversamente viste le relazioni professionali di Arlacchi, il suo sguardo internazionale, particolarmente sugli States, e quel vago piglio di auto-esaltazione delle proprie capacità che contribuisce a rendere le sue frasi solida verità.

Sulla base di questo presupposto noi possiamo essere sicuri di alcune questioni: come si è sempre sussurrato, la Dea a Roma comprava droga nelle piazze, per farci non si sa che – si può immaginare – e Falcone era piuttosto seccato: “di’ al Capo della Dea che se non smettono gli faccio un mandato di cattura. In America la polizia può comprare droga ma in Italia non si può. Da noi la legalità non è un optional”, dice il magistrato all’amico Arlacchi; poi di nuovo una faccenda non nuova ma “sentirla” dalle parole di Falcone è tutta un’altra cosa: “i servizi tengono in pugno i politici con soldi e dossier, coprono e usano la mafia. C’è un pezzo di Stato che ci vuole morti. E gli assassini di Stato restano impuniti“.

Ancora, questo affatto noto: la Cia teneva in pugno Giulio Andreotti e di sicuro aveva piazzato nel suo famoso studio romano una microspia già nel ’79, quando i cugini Salvo andarono a fargli visita: volevano ringraziarlo per aver aggiustato il processo ai fratelli Rimi di Alcamo, uomini d’onore tra i più altolocati dell’epoca. “E Andreotti aveva risposto che ci sarebbe voluto un uomo d’onore per ogni strada dell’Italia”. L’uomo che ascoltava la microspia, Phil Girardi, era amico di Arlacchi, e glielo confidò molto tempo dopo.

Secondo l’autore la fervente inimicizia tra Fbi e Dea da un lato e la stessa Cia dall’altro concorse nell’impedire ogni circolazione di informazioni sull’argomento Andreotti. Concorse, perché la ragione principale era che la Cia, “uno stato nello Stato” – anche questo lo sappiamo, ma sentirselo certificare è bene – non voleva affatto disturbare il grande Giulio, depositario di informazioni sensibili sulla Nato e su tutti gli affari statunitensi in Italia. Andando avanti: “L’eliminazione di Aldo Moro fu un classico esempio del modus operandi dell’intelligence angloamericana: esso consiste nella decapitazione di una leadership ostile oppure di un governo alleato o di una singola personalità divenuti di ostacolo alle politiche imperiali”. Anche qui non c’era sfuggita la questione, ma sentirsi dire da un personaggio come Arlacchi che la Cia come istituzione non è che ha ammazzato Moro ma insomma, bastò mandare a Roma Steve Pieczenik, sembra di capire… fa un certo effetto.

Proseguendo: Ninni Cassarà già nel luglio del 1984 non si fidava affatto del suo capo, Bruno Contrada, allora ritenuto uno dei poliziotti di punta sull’isola e già transitato al Sisde: il commissario Cassarà ne parlò durante una serata speciale passata in tre, lui, Falcone e Arlacchi, all’Hotel Patria, una trattoria dai muri diroccati e dal silenzio severo, nella quale i tre amici condivisero battute e riflessioni, risate mai spensierate e spesso amare. Andando avanti: l’attentato all’Addaura: “sugli esecutori Falcone aveva idee molto precise. Non potevano che essere stati i delinquenti del Sisde”, così come sul mandante, A., la prima lettera dell’alfabeto, una accusa sferzante, diretta, violenta. Lui era il problema principale, “anche se non bastava a spiegare per intero l’impunità e la forza della mafia… l’aver scoperto che la rete dei suoi più stretti sodali (cugini Salvo, Carnevale, P2, Procura di Roma, singoli personaggi dell’intelligence, del Viminale e dei carabinieri) come ostacoli fondamentali del nostro lavoro non era stato un risultato di poco conto”.

Ecco, trovate questi passaggi nel libro di Arlacchi, che finalmente mette sui giusti binari la comprensione dei delitti eccellenti degli anni ’90 portandoli fuori dalla esclusiva orbita mafiosa e buttando in campo i nostri servizi. Perché la partita si è giocata lì dentro. Troverete poi nel libro un intenso affetto per un amico a cui piaceva la vita senza che ciò intaccasse di una unghia l’estremo senso del dovere e dello Stato. E anche questo ritratto lo conoscevamo già: è quello di Giovanni Falcone.