Il documentario del giornalista Salvatore Cusimano racconta l'altra faccia di Falcone, quella dell'uomo normale, di buone letture e buone bevute con gli amici. Ma fa parlare anche gli interpreti di quello che è venuto dopo: dirigenti scolastici, sacerdoti, attivisti
Che cosa è rimasto delle stragi del ’92? Trent’anni dopo gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che fine hanno fatto i siciliani che urlavano ai funerali? Che ne è stato dei palermitani che gridavano “fuori la mafia dallo Stato” ai politici arrivati per le passerelle? Di Capaci e via d’Amelio sono rimasti soltanto i misteri, i dubbi e i buchi neri su moventi segreti e mandanti esterni? Deve essere partito da queste domande Salvatore Cusimano prima di mettersi a girare I semi del ’92, un documentario prodotto da Giorgio e Mario Palumbo, editori scolastici che volevano donarlo a docenti e studenti. Si può vedere qui.
Diciamolo subito, il sentimento che ti lascia la visione del documentario è soprattutto uno: la speranza. Non nella concezione retorica del termine ma in quella più combattiva: sulle stragi sapremo ancora poco, ma la Sicilia di oggi non è quella di trent’anni fa. Ha alzato la testa, non sempre riuscendoci, ma lo ha fatto. I semi del ’92 racconta una serie di passaggi storici di cui Cusimano è stato testimone e cronista. Esperto giornalista della Rai in Sicilia fin dai tempi del Maxiprocesso, il 23 maggio del 1992 Cusimano è il primo a dare la notizia della strage di Capaci, in diretta al Tg1 (lo ha raccontato anche nel podcast Mattanza). Era seguendo le indagini di Falcone che Cusimano si era fatto le ossa come giornalista. Poi sarà anche direttore della sede Rai di Palermo. Ora torna ad occuparsi della strage Falcone, al quale aveva già dedicato un documentario (Nella terra degli infedeli). Lo fa raccontando l’altra faccia del giudice assassinato, quella dell’uomo normale, di buone letture e buone bevute con gli amici. “Noi litigavamo perché lui beveva whisky e io dicevo che bisognava bere cognac e marsala. Bere whisky è da americano. Per me hanno ucciso Giovanni, non un eroe”, racconta Girolamo Lo Verso, psicoterapeuta che era amico del magistrato. Poi ci sono i racconti del giornalista Saverio Lodato, uno che sulle colonne dell’Unità ha seguito i successi del pool antimafia ma anche la delegittimazione messa in moto dal sistema ai danni di Falcone. Nino Di Matteo e Nicola Gratteri, invece, sono due giudici che all’epoca dei fatti erano appena entrati in magistratura: la loro carriera è stata fortemente influenzata da Capaci e da via d’Amelio.
A un certo punto, però, le telecamere di Cusimano si spostano avanti. Dopo aver tracciato la storia di Falcone, delle indagini sulla strage, dei buchi neri di una stagione fondamentale nella storia italiana, il giornalista racconta quello che è rimasto oggi. C’è Antonietta Fazio, del centro di accoglienza Padre nostro, quello fondato da padre Pino Puglisi, il parroco ucciso per ordine dei fratelli Graviano. Fedele interprete dell’opera di Gesualdo Bufalino (“La mafia sarà vinta da un esercito di maestre elementari”), Cusimano fa parlare Antonella Di Bartolo, dirigente scolastica nel quariere che fu di don Puglisi: da qualche anno apre i collegi dei docenti leggendo l’articolo 3, l’articolo 54 della Costituzione e il discorso di Sandro Pertini alla Nazione del’78 (quello sull’Italia “portatrice di pace”). “Io – racconta – penso che questi eventi così forti ai quali aggiungo l’omicidio di Padre Puglisi sono stati dei semi. Per me sono stati dei semi che mi sono rimasti dentro, poi sono germogliati. Questi semi, attraverso il nostro lavor, devono germogliare ancora, influenzando la crescita di chi nel ’92 non era ancora nato”.
Nel documentario di Cusimano c’è anche la voce di fra’ Mauro Billetta, che gestisce la parrocchia di Sant’Agnese, ai Danissinni, un quartiere che è stato il ventre molle della Palermo calibro mafia. E poi pure quella di Mariangela Di Gangi, cresciuta con Rita Borsellino: oggi toglie i bambini dalla strada dello Zen, quartiere simbolo del degrado che diventa serbatoio dei clan. Di Gangi si ricorda ancora quando suo padre le spiegò per la prima volta la storia della strage di Capaci: lo fece in modo semplice. Talmente semplice da farle capire che quella storia la riguardava in prima persona.