di Roberta Ravello
Dal 2007, il 17 maggio di ogni anno si celebra la Giornata internazionale contro l’omofobia e la transfobia quale momento di riflessioni e azioni per denunciare e lottare contro ogni violenza fisica, morale o simbolica legata all’orientamento sessuale. Il 17 maggio è stato scelto perché è la ricorrenza dalla rimozione dell’omosessualità dalla lista delle malattie mentali nella classificazione internazionale delle malattie pubblicata dall’Organizzazione mondiale della sanità avvenuta nel 1990.
Dover parlare, ancora nel 2022, di accettazione del genere, pare assurdo. Per chi è mentalmente progressista, non esiste diversità nel genere, perché ciascuno dovrebbe essere libero di scegliere quello che più gli aggrada senza discriminazione da parte altrui. Eppure, c’è ancora un mondo di tradizionalisti che costruiscono la propria identità attraverso l’esclusione di quelli che, secondo costoro, sarebbero diversi e avvertendoli come minaccia, non si capisce a che cosa, visto che la scelta di orientamento sessuale di terzi non obbliga se stessi a optare per la medesima preferenza.
Pesano ancora modelli di pensiero penalizzanti anche per chi è eterosessuale. Dunque, un uomo per essere forte non dovrebbe mostrare sensibilità, avvertita quest’ultima come debolezza e apprezzata invece nelle donne. Che assurdità, una donna può essere forte e determinata, senza perdere il proprio fascino, e un uomo essere gentile e premuroso verso gli altri, senza perdere in virilità.
Quando l’identità è costruita a spese degli altri c’è un problema sociale. Dunque, se i bianchi sono migliori a spese dei neri, se i maschi sono migliori a spese delle femmine, se i forti sono superiori a spese dei deboli, se il dominio degli animali richiede la violenza, e via dicendo, si gettano le basi di comunità che cercano di rafforzarsi a negazione di qualcuno, comunità ingiuste.
Del resto le discriminazioni si reggono proprio sul non dovere dimostrare maggiori qualità nei fatti, perché bastano pregiudizi e atteggiamenti valoriali razzisti o sessisti per giustificare chi ha diritto di stare in una posizione dominante, non già perché lo meriti, ma attraverso il mancato riconoscimento dei diritti negati a parte della popolazione relegata alla subalternità da parte di chi così realizza un vantaggio disonesto, perché poco deve fare per mantenere i propri privilegi.
Il mancato riconoscimento dei diritti della comunità lgbtq+ è una delle enclave in cui queste dinamiche sono ben visibili a svantaggio di una parte della popolazione. Eppure, ad oggi, il fenomeno dell’omotransfobia in Italia dilaga anche se non lo vediamo. Nel Paese c’è un mondo sommerso, ostinato, conservatore che odia le persone Lgbtq, le discrimina, le considera sbagliate e da correggere. Questo ha un peso anche nel settore giuridico, il reato è poco riconosciuto perché non conosciuto e non tracciato. Il ddl Zan, affossato dal Senato nel mese di ottobre scorso, oltre a istituire il reato di omotransfobia, prevedeva all’articolo 9 una “rilevazione statistica sugli atteggiamenti della popolazione in relazione alla discriminazione e alla violenza omotransfobica”. Purtroppo ad oggi si registra uno stallo sul proseguimento dell’iter parlamentare, mentre cresce la disillusione tra le vittime che poco denunciano il bullismo e la discriminazione cui sono soggette nella consapevolezza della mancanza di una legge che le tuteli.
Parlare a favore del riconoscimento dei diritti a chi se li vede negati non è mai superfluo. Viviamo in una società dove in molti si riempiono la bocca contro il bullismo, scordandosi una parte della popolazione che vi è particolarmente soggetta, per la quale in pochi si spendono. Oltre alla legge di riconoscimento dei diritti, quello che serve è il cambiamento culturale di accettazione di quella che poi, anziché una diversità da temere, è una delle tante possibili variazioni della normalità che arricchisce la collettività.