“Viviamo all’ombra di una legge vecchia di 40 anni che ci tiene in sospeso. Ma noi esistiamo, cosa aspetta la politica ad aggiornare le norme?”. A parlare è Christian Cristalli, presidente del Gruppo Trans Aps, associazione di Bologna che da alcuni anni ha avviato, tra le altre cose, una piattaforma dedicata alla formazione e alla consulenza, aiutando le persone transgender nella ricerca di un lavoro e organizzando corsi per le aziende. E se oggi, accanto alle storie di isolamento e disparità, ci sono anche esempi di aziende inclusive e accoglienti lo dobbiamo anche alla sua realtà e a quella galassia di associazioni, grandi e piccole, che hanno attivato sportelli e promosso campagne di sensibilizzazione insieme ai sindacati. Passi avanti in una strada che appare ancora molto lunga.
“Nel 2021 – racconta- abbiamo fatto un sondaggio e quasi la metà delle persone che si sono rivolte a noi ha raccontato di aver subito episodi di discriminazione sul lavoro. Spesso non c’è la prova, ma sembra una regola non scritta. Abbiamo la sensazione che molte aziende non vogliano accostare la loro immagine alle nostre vite. C’è ancora un pregiudizio molto forte”. Anche all’università si può incontrare un ambiente ostile e poco inclusivo, e questo rischia di diminuire il livello di scolarizzazione tra le persone trans. “In Italia scontiamo un approccio che associa la transizione a una patologia. A differenza di altri paesi in Europa che utilizzano altri protocolli, noi facciamo ancora ricorso a manuali che prevedono delle diagnosi. Per quello in Italia ci vuole tanto tempo a ottenere i documenti rettificati, e questo tiene la persona transgender in sospeso per mesi o anni”. Come emerge dalle testimonianze, il primo ostacolo per l’accesso al lavoro è proprio la discrepanza tra il nome scritto sul curriculum e l’identità sociale e l’aspetto del candidato al colloquio. “Pensiamo per esempio a tutte le professioni che hanno a che fare con i bambini, come quella dell’istruttore o del baby sitter. Ci sono precluse a causa dello stigma. E in questo contesto la legge è ancora quella del 1982, quella che ci costringeva a sottoporci all’operazione chirurgica per avere il nome rettificato sui documenti. E se oggi non c’è più quest’obbligo lo dobbiamo solo alla Cassazione e alla Corte costituzionale che lo hanno eliminato nel 2015. Ma la politica nel frattempo cosa fa?”.
E così, mentre in tema di diritti lgbt+ il Parlamento non riesce nemmeno ad approvare una legge come il ddl Zan di cui si discute da 20 anni, le associazioni sul territorio provano a cambiare le cose. A volte sono le stesse aziende a contattarle, con lo scopo di creare un ambiente più accogliente in ufficio, migliorare il dialogo e lo spirito di squadra tra i colleghi. Una situazione che fa comodo a tutti. “Hanno capito che se le persone lavorano più volentieri, rendono di più”. Insieme ad Arcigay, Gruppo Trans ha fatto formazione alla Caritas, all’Adecco, alla Croce Rossa e alla Uisp, dove ci sono istruttori sportivi che devono imparare a interfacciarsi anche con bambini transgender. “Cerchiamo di insegnare che la transizione non è un dato professionale da considerare e non necessita di domande”. Bisogna dunque tenere fuori dai colloqui le curiosità personali. “In più è importante l’utilizzo corretto dei pronomi e del nome di elezione, la presenza di spogliatoi neutri e la fornitura di divise adatte”.
A Milano uno dei riferimenti storici è lo Sportello Trans di Ala, coordinato da Antonia Monopoli. Qui le persone arrivano per avere informazioni sul percorso di transizione, per cercare aiuto perché vittime di violenze domestiche o per un supporto nella ricerca di un lavoro o di un appartamento. “Non avere un documento conforme al proprio aspetto è molto penalizzante. Una ragazza ha chiesto aiuto perché, nonostante le buste paga con stipendi importanti, nessuno le dava casa in affitto. È una cosa molto frequente”. Un meccanismo simile accade nella ricerca del lavoro. “Quando una persona trans si rivolge all’agenzia interinale, spesso lo sportellista boccia la richiesta perché non sa come presentare il candidato all’azienda. E questo a causa della carta d’identità che ha ancora il nome vecchio”. Per questo è stata avviata una collaborazione con la Manpower per affiancare le persone trans nella ricerca di un’occupazione. Inoltre quest’anno, grazie a un finanziamento dell’Unar, sarà aggiornato un opuscolo con le buone pratiche redatto insieme alla Cgil e destinato alle aziende.
In questo direzione va anche l’iniziativa del Comune di Milano che lunedì 16 maggio ha approvato una mozione dalla consigliera del Pd, Monica Romano che impegna la giunta Sala a riconoscere il diritto a utilizzare la carriera alias sui documenti comunali. Una possibilità che riguarderà tutti i lavoratori transgender del Comune e delle sue partecipate come A2a o Atm. Attraverso l’istituzione di un registro di genere, si potrà avere il nome di elezione prima del cambio all’anagrafe. Stessa cosa per i cittadini, che avranno tessere per i mezzi pubblici, biblioteche o piscine aggiornati, prima dell’intervento sulla carta d’identità. “La persona trans o non binaria dovrà depositare davanti a un ufficiale di stato civile del Comune una dichiarazione in cui dirà qual è il suo nome scelto” spiega Romano. Anche per la consigliera, la prima donna transgender eletta a Milano, la legge che regola il cambio di identità è obsoleta e superata. “Fu una norma sanatoria, approvata per risolvere il caso di tutte quelle persone che andavano all’estero per fare la transizione e che in Italia si sarebbero state fuori legge. Ci tratta come un problema per la sicurezza pubblica. Serve invece una nuova norma che promuova il diritto all’identità di genere e all’autodeterminazione con percorsi facili, economici, e accessibili per tutti i cittadini“.