L'iniziativa punta a fornire lavoratori a un settore in cui ne mancano 260mila. Rifugiati e richiedenti asilo saranno formati "per sostenere la crescita trainata da super bonus e Pnrr". In contrasto con la legge del 2020 che non finanzia corsi professionali per gli ospiti dei centri di accoglienza in attesa di una risposta alla loro richiesta di protezione. Così il sistema perde tempo, non valorizza le persone utili e non risponde al sistema produttivo, come confermano i numeri dei decreti flussi e delle sanatorie degli ultimi 30 anni
L’iniziativa è positiva, se non altro perché contraddice la legge. In un Paese dove nella pratica è impossibile entrare per motivi di lavoro, un protocollo come quello firmato lunedì dai ministeri degli Interni e del Lavoro e dalle parti sociali non poteva non essere in controtendenza. Perché alle esigenze di un settore come l’edilizia, e di partite come il Pnrr e il super bonus per le ristrutturazioni, risponde offrendo a tremila tra rifugiati e richiedenti asilo un’opportunità di formazione e di ingresso regolare nel mercato del lavoro. Ma soprattutto perché fa quello che è impedito dalla legge, che nega il finanziamento della formazione professionale ai richiedenti asilo, sprecando tempo che lo stesso sistema non consente di recuperare.
“O il ministero si è accorto della sciocchezza, ma allora serve un decreto che modifichi la norma, oppure siamo schizofrenici”, commenta Gianfranco Schiavone, decano dell’accoglienza dei migranti e tra gli ideatori del sistema dell’accoglienza diffusa in Italia. È l’ennesimo paradosso di un’Italia che ha paura di ammettere che ha bisogno di lavoratori stranieri, tanto da introdurne due milioni in trent’anni con i decreti flussi e da doverne regolarizzare altrettanti attraverso strumenti emergenziali come le sanatorie. “A dimostrazione che una seria programmazione a partire dalle esigenze del tessuto produttivo non si vuole fare”, spiega l’avvocato Francesco Mason, che per l’Asgi segue anche l’iter della proposta di legge ‘Ero Straniero‘ per riformare la disciplina dell’immigrazione e in particolare proprio l’accesso all’Italia per motivi di lavoro. Tanto per cambiare, è ferma in Commissione affari costituzionali dal marzo 2020.
Che l’Italia ha bisogno di lavoratori stranieri è un’ovvietà che è meglio dire sottovoce. Lo sa il ministro del Turismo, il leghista Massimo Garavaglia, che la settimana scorsa ha sostenuto che “per salvare la stagione turistica servono più stranieri”, salvo doversi rimangiare le parole perché troppo imbarazzanti in un partito che è il principale responsabile della mancata programmazione dei flussi e dell’impossibilità di entrare regolarmente per lavoro, come vuole la legge Bossi-Fini del ’98, intatta dopo un quarto di secolo. E allora meglio affidarsi a iniziative come il protocollo firmato dai ministri Luciana Lamorgese e Andrea Orlando, dall’Associazione nazionale costruttori edili (Ance), e dai segretari di Fillea-Cgil, Filca Cisl e Feneal Uil. Il documento al quale hanno collaborato anche UNHCR e Anci ha il duplice obiettivo “di formare e avviare al lavoro nel settore edile rifugiati e altri migranti vulnerabili, al fine di accompagnare il loro percorso verso l’autonomia e per sostenere la crescita trainata da super bonus e PNRR”, scrivono i ministeri nel comunicato seguito alla firma. “Recepiamo così la Partnership on Integration siglata tra Commissione Europea, associazioni datoriali e sindacati europei – ha spiegato Orlando – calandola operativamente nella realtà italiana e nelle esigenze del nostro sistema produttivo. Lo facciamo anche guardando al futuro di chi fugge dalla guerra in Ucraina e cerca qui protezione, accoglienza e integrazione. Mi auguro di firmare presto accordi analoghi attivi anche in altri settori”. Quanto alla Lamorgese, si è detta certa che il protocollo “rappresenti un modello importante che potrà stimolare nuove forme di alleanza tra pubblico e privato in settori sempre più ampi dell’economia nazionale”.
La finalità è l’inserimento socio-lavorativo degli stranieri tramite la promozione di percorsi formativi e opportunità di lavoro nel settore dell’edilizia. All’articolo 3 si legge che “i beneficiari sono individuati tra richiedenti e titolari di protezione internazionale o temporanea e altre categorie di cittadini stranieri in condizione di vulnerabilità con permessi di soggiorno che consentono l’attività lavorativa, come titolari di protezione speciale, minori stranieri non accompagnati in transizione verso l’età adulta o cittadini stranieri maggiorenni entrati in Italia come minori stranieri non accompagnati”. Mentre al seguente articolo si dice che “il ministero dell’Interno promuove, al fine di facilitare l’individuazione dei beneficiari, la conoscenza delle iniziative nei centri di accoglienza e nel Sistema di Accoglienza e Integrazione SAI“. Lo stesso sistema SAI che non può spendere un euro nella formazione professionale dei richiedenti, visto che la legge 173 del 2020, voluta da M5s e Pd nel secondo governo Conte, non la finanzia. “Salutiamo con piacere questo protocollo, ma è indicativo di quanta confusione ci sia”, spiega Schiavone, che a Trieste si occupa di accoglienza come presidente del Consorzio Italiano di Solidarietà (ICS). Insomma, chi ancora aspetta una risposta alla richiesta di protezione internazionale, il corso professionale, se vuole, se lo paga da sé. Ma quando si parla di richiedenti asilo e di rifugiati bisogna considerare il fattore tempo. E mentre i primi, ai quali ci limitiamo a insegnare l’italiano, possono rimanere nel sistema di accoglienza fino a quattro anni per i tempi amministrativi e giudiziari ai quali sono esposte le loro domande, i secondi, già titolari di protezione, non possono fermarsi per più di sei mesi e sempre che ci sia posto.
“Si buttano anni e poi si pretende che alla stessa persona che abbiamo tenuta parcheggiata si faccia orientamento, formazione e inserimento lavorativo in pochi mesi”, continua Schiavone. “Paradossalmente la lentezza procedurale sopperisce alle mancanze del legislatore che non ha mai previsto in maniera chiara percorsi di integrazione di richiedenti di protezione internazionale e speciale”. Con l’aggravante che l’Italia non è in grado di valorizzare chi ha già una qualifica, di studio o professionale, a partire da quelle più elevate. In questo ingranaggio si inceppano le esigenze del sistema produttivo, con i governi che da 15 anni hanno smesso di fare la programmazione dei flussi di lavoratori stranieri, nonostante lo preveda la legge. Che senza programmazione impone di non superare la quota dell’anno precedente e per anni ha tenuto gli ingressi al palo senza mai superare i 30mila. Lo scorso anno, per la prima volta, siamo saliti a 70mila. Ma la cifra è comunque insufficiente, e non solo secondo gli slanci del ministro Garavaglia. “A fronte di 70mila quote, le domande sono state 220mila e i posti non stagionali sono appena 40mila, che non bastano né per i lavoratori né per il mercato “, racconta l’avvocato Francesco Mason dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione. E solo per rimanere all’interno dei firmatari del protocollo sui tremila migranti da formare per l’edilizia, il centro studi dell’Ance ricorda che nel settore mancano all’appello 260mila lavoratori. Siamo ben lontani dalle esigenze del nostro mercato del lavoro e la stessa regolamentazione del 2020, pensata anche per avvicinare gli stranieri al Sistema sanitario e alle vaccinazioni anti-Covid, procede a rilento. “Dopo due anni dalla chiusura dei termini per fare domanda sono state processate poco più del 50 percento delle richieste, e nonostante i mille interinali assunti per dare manforte”, ricorda Mason.
Oltre la logica dell’emergenza infinita e della propaganda c’è un Paese che invecchia, che perde forza lavoro e non riuscirà a sostenere il suo sistema di welfare perché non ci saranno abbastanza lavoratori attivi che pagano tasse e contributi. Eppure il bilancio della presenza degli stranieri è positivo, perché quelli attivi contribuiscono più di quanto non costino allo Stato in servizi, compresa la prima assistenza e l’accoglienza dei migranti. In Parlamento c’è una proposta di legge di iniziativa popolare dal titolo “Nuove norme per la promozione del regolare permesso di soggiorno e dell’inclusione sociale e lavorativa di cittadini stranieri non comunitari”, depositata con oltre 90.000 firme alla Camera dei deputati nel 2017. Oggi l’unica possibilità di ingresso per lavoro prevede che l’accordo col datore sia già attivo prima ancora della partenza dallo stato di origine, cosa che non accade quasi mai ed equivale a mettere l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi Ue per ingressi motivati da lavoro. “L’iniziativa ‘Ero Straniero’, attraverso la proposta di legge per la riforma della disciplina sull’immigrazione, chiede di introdurre l’ingresso per ricerca di lavoro e di prevedere meccanismi di regolarizzazione permanente per chi è già qui, svolge un lavoro e chiede la possibilità di regolare la sua posizione lavorativa come quella contributiva, come già accade in tanti paesi Ue”, spiega Mason, che segue l’iniziativa per l’Asgi, una delle tante realtà coinvolte nel progetto. “Quella dello straniero in Italia rimane una condizione di precarietà esistenziale, minata dagli ostacoli burocratici e dai requisiti stringenti che la politica pretende per l’accesso ai servizi. Gli esempi non mancano: il codice numerico assegnato ai lavoratori della sanatoria 2020 non viene riconosciuto dal sistema informatico dell’Inps per l’accesso alla disoccupazione, mentre per il rinnovo di un permesso di soggiorno passano così tanti mesi che molti vedono sfumare l’opportunità di un posto di lavoro perché nessuno ti assume se tutto quello che hai in mano mentre aspetti è una mail con la data dell’appuntamento in questura”. Sul sito dell’iniziativa Ero Straniero si può seguire l’iter della legge, che è all’esame della Commissione affari costituzionali da ormai due anni.