“La crisi in cui versa il giornalismo italiano è una vera e propria emergenza”. Non solo per chi questo mestiere lo fa o cerca di farlo, ma per tutti, perché il giornalismo è un “alimento di cui la società democratica non può fare a meno”. A suonare l’allarme è Gad Lerner, che il mestiere lo fa da 46 anni, nella carta stampata e in tv – dall’esordio a Lotta Continua nel 1976 all’attuale collaborazione con Il Fatto Quotidiano – nel libro Giornalisti da marciapiede, in uscita mercoledì 18 maggio per Edizioni Gruppo Abele. In una lunga intervista condotta da Elena Ciccarello, direttrice del mensile lavialibera (e già collaboratrice di ilfattoquotidiano.it), Lerner concede pochissimo alle diplomazie e alle reticenze che ci si potrebbe aspettare da un giornalista che parla dei colleghi, degli editori, dell’Ordine professionale (“retaggio del passato, che non dovrebbe più esistere”).
Di risposta in risposta, anche il lettore profano si addentra in una crisi che è certamente economica, ma non solo. I quotidiani, in perenne emorragia di copie vendute, sono sempre più imbrigliati in logiche politiche o di interessi particolari. L’informazione sul web stenta a far quadrare la sostenibilità economica, e soprattutto a trovare risorse che ripaghino il costoso giornalismo d’inchiesta e di approfondimento. I talk show hanno avuto “una dilatazione abnorme” nei palinsesti televisivi anche perché – ci risiamo – “costano poco”. Il sogno – di alcuni – che il lavoro giornalistico sarebbe stato sostituito dai blog e dai social si è infranto, e Lerner lo evidenzia con la parabola del blog di Beppe Grillo, “che firma un contratto da 10 mila euro al mese per il suo sito con l’armatore Vincenzo Onorato, bisognoso di sostegno lobbistico in Parlamento”. Intanto il pubblico comincia a soddisfare la sete di informazione e comprensione della realtà con mezzi non convenzionali: “Mi domando perché il cinema e le serie tv stiano surclassando il giornalismo quanto a capacità di immedesimarsi nella realtà”, dice Lerner ricordano il successo di prodotti come Sanpa, la serie di Netflix su San Patrignano. “Cosa ci manca, a parte le risorse?”.
Così “giornalisti da marciapiede” è una denuncia e al tempo spesso un auspicio. Una denuncia del precariato debordante, degli articoli pagati pochi spicci, che hanno trasformato l’ex “casta” in un nuovo proletariato. Un auspicio perché il marciapiede è il luogo dove i cronisti dovrebbero tornare per ricominciare a raccontare la realtà e a riconquistare l’interesse dei lettori. Altri sono infatti gli interessi che si addensano intorno all’informazione. Lerner ricorda una cena con Sergio Marchionne, all’epoca amministratore delegato della Fiat, il quale “si compiaceva di aver convinto gli azionisti a uscire dalla proprietà del Corriere della Sera e di aver venduto La Stampa al Gruppo Espresso, gestito dai De Benedetti”. Il motivo? “Da investitore, era convinto che bisognasse allontanarsi da un settore in declino”. Dopo la morte del manager, John Elkann ha fatto marcia indietro riacquisendo il gruppo Gedi. Con quali obiettivi, se non economici? “I giornali continuano a servire all’establishment come strumenti di pressione”, ricorda Lerner. Da notare che gli eredi Agnelli si sono sbarazzati immediatamente delle voci più critiche, Micromega e l’Espresso. Il settimanale, salvo sorprese, è in via di acquisizione da parte del presidente della Salernitana calcio, Danilo Iervolino: “Si tratta di un imprenditore che ha fatto molti soldi vendendo l’Università telematica Pegaso. Vedremo cosa se ne farà: un modo per entrare nel salotto buono del capitalismo italiano? Dubito che s’illuda di guadagnarci”.
E in modo simile ragiona la politica, che foraggia testate grandi e piccole con prebende mascherate, per esempio i “finanziamenti all’innovazione e al digitale che poi non vengono effettuati” e i prepensionamenti consentiti spesso proprio a quelle testate che “fanno la predica ai sindacati, sostenendo nei loro editoriali che non si possono concedere trattamenti pensionistici più degni ai poveracci”. A pensar male, ecco dove sta lo scambio fra politica e informazione: “Se anche il governo Draghi, che secondo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si colloca al di fuori degli schieramenti politici, accorda di questi favoritismi, noi siamo in diritto di pensare che il sostegno acritico che gli perviene dalla quasi totalità dei giornali dipenda anche da tali donazioni occulte”.
L’intreccio tra politica, imprenditoria e informazione è ben descritto da uno dei tanti aneddoti raccontati, frutto di quasi mezzo secolo di giornalismo consumato sì sul marciapiede, ma anche nei palazzi più alti del Potere. Nel 1996 Bruno Vespa ospita a Porta porta Gianfranco Fini, allora vicepresidente del consiglio nel governo Berlusconi, con la showgirl Valeria Marini “invitata a rivolgergli domande in veste di esponente della società civile”. Lerner si indigna e ne scrive su La Stampa. “Naturalmente Vespa fece quel che usano scorrettamente fare i potenti quando un attacco li disturba: telefonò al “padrone” del giornale, cioè Gianni Agnelli, per lamentarsene”.
“Qual è realmente il problema, la fine dei giornali o del giornalismo?”, si chiede nell’introduzione Elena Ciccarello. Se il problema fosse solo di sostenibilità economica del giornalismo “forse non resterebbe che rassegnarsi e accompagnarlo dolcemente alla fine, accettando la sua natura anacronistica”. Invece è entrato in crisi “il lavoro di mediazione”, il racconto del mondo è spesso accolto con “sottovalutazione e insofferenza”, c’è una generale “ignoranza” sui costi che un’informazione di qualità comporta. “I primi a pagare il prezzo della fine del giornalismo”, conclude la direttrice di lavialibera, “sarebbero le persone senza voce, chi non ha potere né rappresentanza, chi rischia con maggiore facilità di restare preda del ciarlatano di turno”.
La prima presentazione del volume si terrà sabato 21 maggio al Salone Internazionale del
Libro di Torino. Insieme agli autori, il giornalista Carlo Verdelli