Cinema

Mariupolis 2, ovvero tutti gli stati della morte

Qualcuno ha detto che il cinema è la morte al lavoro. Forse non c’è conferma più efficace di questa affermazione del film Mariupolis 2 di Mantas Kvedaravicious, cineasta lituano ucciso il 30 marzo scorso in Ucraina mentre lavorava a queste riprese. Kvedaravicous era già stato a Mariupol all’epoca dell’invasione del Donbass. Di qui il ritorno. Ma il film non si è potuto completare per la morte del suo autore. E allora ci hanno pensato la compagna del regista e la sua montatrice prima a salvare e poi a montare le immagini.

Sono immagini crude e al tempo stesso molto umane, che suscitano la pietas perché non cercano l’effetto drammatico. Non c’è un soldato in questo film, non un combattimento, non una distruzione in diretta. Tutto è come già avvenuto, eppure tutto deve ancora accadere. Ciò che è già avvenuto è la distruzione, l’uccisione, lo sconvolgimento delle vite, non solo degli umani, ma anche degli animali: un cane è disorientato, se ne sta nella cuccia, non abbaia, non latra, si guarda intorno e forse piange dentro di sé; i piccioni di un allevamento, “liberati” dalla bomba, non volano via, ma restano su quello che resta del tetto della loro “casa”, appollaiati come se volessero trovare un senso, una direzione verso cui andare, e magari un po’ di cibo. Quello che deve ancora avvenire è tutto il resto, il ritrovarsi, il ricominciare a vivere, la speranza che ora è sostituita dalla rassegnazione.

Il film non è un reportage di guerra, non si sentono voci ansimanti di operatori che camminano tra le rovine o che commentano e indicano, come ci hanno abituato i troppi servizi dalla guerra che vediamo in tv. Il silenzio è protagonista: niente musica, niente voci di commento, le scarse parole sono quelle degli sfortunati protagonisti della vicenda, poche come se fossero da razionare anch’esse. Non c’è tempo per la pietà: accanto a un paio di cadaveri lasciati lì a cominciare a puzzare, ci si preoccupa solo del generatore di elettricità che si è recuperato tra le macerie e che potrà servire. L’immagine è come senza centro: frammenti, pali rotti, macerie, non c’è modo di “costruire” le immagini, ma solo di aprire e far aprire l’occhio e il cuore a chi guarderà, forse, domani. L’unica cosa che si può fare con l’immagine è fermarsi, inquadrare a lungo la stessa scena: la città vista da lontano nella sua immobilità di morte, con il fumo che sale e qualche fiamma che anima l’oscurità, la chiesa battista miracolosamente rimasta in piedi mentre tutt’attorno è finita la vita, è finito il mondo.

Invece di andare in giro per la città di Mariupol a cercare le immagini, Mariupolis 2 si ferma praticamente in un solo luogo, la chiesa, il suo intorno, il suo rifugio sotterraneo. Ma quanto parla quel singolo luogo! La chiesa sembra una madre-chioccia che protegge i suoi fedeli: sotto si ringrazia Dio per aver fatto dormire un sonno tranquillo e per aver dato una bella giornata primaverile con il sole; intorno il nulla, i resti di un cortile con due mucchi, il primo è una sepoltura fatta in fretta e coperta con qualche fiore, il secondo, lì accanto, è un ammasso di detriti e masserizie. La morte in tutti i suoi stati.

Qualcuno racconta per piccoli cenni le scene raccapriccianti che ha visto, ma non c’è vero racconto in questi pochi frammenti di frasi: solo il terrore che passa dagli occhi alle parole. In questo film lento, perché di fatto non accade nulla – il contrario dei tanti film di genere a cui ci ha abituato il cinema per raccontare le guerre – la guerra è l’unico protagonista, un fantasma di cui si ha perfino paura a pronunciare il nome. Quando c’era l’Unione Sovietica, dice un vecchio ucraino, tutto più o meno andava; poi è arrivato il “potere onesto”, e poi un altro “potere onesto” e così via. Più è onesto questo potere più si vive male.

Non c’è finale in questo non-racconto. E infatti alla fine arriva il giorno, ma il paesaggio della città fumante resta lo stesso. Buio. La data di nascita e di morte di Mantas Kvedaravicous, nato nel 1976, ucciso il 30 marzo del 2022.