La mia amica Svitlana, ucraina trapiantata a Milano, mi ha subito mandato un sms: “Oggi tuo Milan ti ha fatto felice?”. Il mio vecchio compagno di liceo, Pasquale Berardinelli, bravissimo medico ma soprattutto antico tifoso milanista come me, mi ha inviato su Whatsapp – appena si è conclusa la trionfale partita a Reggio Emilia contro il Sassuolo – la riproduzione di un classico manifesto della nostra parrocchia calcistica: “Tutti gli uomini nascono eguali”, si legge in alto, poi, sopra e sotto lo stemma del club, la frase pone subito l’obiezione della Curva: “ma solo i migliori diventano i rossoneri”. Diciamo che l’entusiasmo è alle stelle (che sono diciannove, come quelle dei rivali nerazzurri), che abbiamo festeggiato sino a tardi – io dal mio esilio (provvisorio) francese, dove in molti hanno festeggiato la vittoria del Milan poiché la squadra del Nizza ostenta gli stessi colori e maglie…
Aggiungo infine che l’immenso Ibra, l’idolo protettore di questa rinascita calcistica, è ormai a pieno diritto per il suo indubbio ruolo di Grande Protettore ed Ispiratore nel pantheon della storia milanista (vinse lo scudetto undici anni fa, se l’è riconquistato ieri: bella storia, come l’ideale cerchio mitologico di un predestinato della dea Eupalla, per usare il lessico di Gianni Brera, che mi ha svezzato e sopportato fin da piccolino, poiché ero amico dei tre figli, amicizia durata tutta la vita).
Di recente, Stefano Giovinazzo (Edizioni della Sera) mi ha inviato un libro che racconta gli “eroi, leggende e numeri 10 rossoneri”. Lo ha curato Davide Grassi, altro milanista doc (per il quale ho scritto in altre antologie dedicate al Milan). Bello e azzeccato il titolo: Fantasia milanista, perché questa è sempre stata la peculiarità della nostra squadra che vinse il suo primo scudetto nel 1901, al tempo della Belle Époque, quando allenatore e presidente erano inglesi. Ecco, invece di sciropparvi pregi, difetti e simboli del Milan di oggi – bisogna decantare gioia e preferenze, prima di elaborare una stagione avvincente ed inattesa come questa che si è appena conclusa – vi racconto come nacque e come si forgiò il suo carattere, diventando simbolo di bel gioco e di creatività: emblematica la figura di Gianni Rivera, il numero 10 per eccellenza del calcio italiano, il mio idolo (ma il Milan ebbe anche Baggio, Seedorf, Boban, Gullit, Liedholm, Schiaffino, Savicevic, Pirlo…).
Dunque, agli albori del secolo scorso, in verità non esisteva ancora l’istituzione dello scudetto, ma una sorta di campionato (all’inizio assai limitato) che però poteva considerarsi a buon diritto un torneo in cui si decideva quale fosse la squadra più forte d’Italia. Il Milan lo conquistò nella finale del 5 maggio 1901, andando a stanare il “campione” Genoa a casa sua, battendolo sonoramente 3 a 0. Il mister si chiamava Herbert Kilpin, che era pure giocatore, anzi una sorta di factotum: di volta in volta difensore arcigno, centrocampista col fiato del mezzofondista, attaccante grintoso. In realtà aveva militato prima nell’Internazionale Torino, poi fu colui che s’inventò il Milan, lo fondò e ne divenne il primo allenatore oltre giocatore.
Era nato nel 1870 a Nottingham, i giornali di casa nostra subito lo ribattezzarono il Robin Hood del pallone, aveva giocato ragazzino nel Garibaldi Nottingham, e questo la dice lunga sulla popolarità dell’Eroe dei Due Mondi… Aveva un bel paio di baffi, era figlio di un macellaio, aveva otto tra fratelli e sorelle, a tredici anni rivelò le sue capacità organizzative e la sua passione per l’Italia. Infatti mise in piedi con gli amici di scuola un club amatoriale intitolato a Giuseppe Garibaldi: la casacca era rossa, come quelle dei garibaldini, che allora suscitavano le simpatie dei giovani perché ne condividevano gli ideali di “cittadini del mondo”.
Kilpin approdò in Italia nel 1891, dove lavorò come tecnico tessile, insegnando agli operai del commerciante italo-svizzero Edoardo Bosio come usare i nuovi modernissimi telai inglesi. L’imprenditore, contagiato dalla passione dell’inglese, fondò l’Internazionale Torino di cui Kilpin fu socio e giocatore, mentre la presidenza venne assunta da Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi. Il Torino perse i primi due tornei “nazionali” ad eliminazione diretta, nelle finali contro il Genoa, altra squadra fondata da inglesi, i maestri di questo nuovo sport che in Italia era ancora uno sfizio di nicchia.
Kilpin lasciò Torino per trasferirsi a Milano nel 1898 e cominciò a frequentare un locale che si chiamava American Bar, dove conobbe altri residenti britannici. Con loro, nel dicembre del 1899 riunì alcuni ex soci della società Mediolanum e creò il Milan Football and Cricket Club. Alfred Edwards fu il primo presidente, Kilpin l’allenatore, il manager e il giocatore, nonché primo capitano. Ruolo che affidò spesso al vecchio compagno di squadra torinese David Allison.
Era infatti un calcio a dir poco avventuroso, a cominciare dalle difficoltà logistiche e ci fu persino, nel corso del torneo 1901, un derby fra il Milan e la Mediolanum, sorta di resa dei conti dopo la scissione, e in semifinale lo scontro, già bollente fin dagli albori della rivalità pallonara tra Milano e Torino, con la Juventus, per di più in trasferta. Fu una partita sempre in rimonta che risolse proprio Kilpin: suo il gol decisivo del 3 a 2. Scorrendo i nomi di quei pionieri rossoneri, si scopre che la squadra era composta soprattutto da stranieri: oltre al “mister” e all’amico Allison, la rosa era composta da Kurt Lies, Samuel Richard Davies, Penvhyn Lewellyn Neville, Edward Dickinson Dobbie, Hans Suter, Louis Wagner e Hoberlin Hood. Solo cinque gli italiani: Daniele Angeloni, Guerriero Colombo (un nome un’indole…), Ettore Negretti, Agostino Recalcati, Catullo Gadda. Insomma, il cosmopolitismo milanista era radicato sin dalle origini. Rispecchiava il carattere e la vocazione della città, rivolta più all’Europa che al resto d’Italia.
Questa mentalità fu però subito osteggiata dalla nascente Federazione del calcio italiano, al punto che Kilpin, dopo aver conquistato tre titoli e segnato 23 reti, si dimise per protesta nel 1908, rimanendo tuttavia nell’ambiente calcistico allenando l’Enotria Goliardo, formazione universitaria dilettantesca di Porta Romana che giocava in Terza Categoria (riuscirà nell’ottobre del 1919 a raggiungere la Prima Categoria, allora l’equivalente dell’attuale serie A, dove giocò gagliardamente nella stagione 1919-1920 giungendo seconda nel girone B lombardo, dietro solo al Milan, accedendo alle semifinali del campionato Nazionale, dove arrivò sesta, ma ultima del girone C).
Leggendo nei dettagli la biografia di Kilpin (che trovate per esempio su Wikipedia) noi milanisti d’antan ci indigniamo. Per l’ingratitudine e l’oblio di cui fu vittima. Per la memoria labile di una città che lo trascurò per 82 anni. Albert morì il 22 ottobre del 1916, ucciso dalla cirrosi epatica (beveva smodatamente) e dalla depressione. Lo seppellirono frettolosamente in una fossa del campo destinato agli “acattolici”, nel Cimitero Maggiore di Milano, poiché era anglicano. Le sue ossa, esumate nel 1928, furono salvate grazie all’intervento anonimo di un benefattore, probabilmente un milanista che si scandalizzò di come fosse stato trascurato un simile personaggio cui il Milan doveva tutto e di più. Le spoglie finirono in una celletta, tuttavia priva di riferimenti. Rimase abbandonata così sino al 1998, quando lo storico Luigi La Rocca, rossonero viscerale, rintracciò il nome di Alberto Kilpin negli archivi cimiteriali.
Il Milan intervenne l’anno dopo e traslò le ossa al Cimitero Monumentale, dove finalmente gli si rese omaggio, con una celletta-ossario dove sono incisi il nome e una intestazione in cui la società attesta (finalmente!) la sua riconoscenza. Il 2 novembre del 2010, il Comune di Milano, sollecitato da una petizione e dalle iniziative della Banda Casciavit-Herbert Kilpin Firm e dello storico La Rocca, iscrive il nome dell’inglese nel Famedio del Monumentale, destinato ai milanesi illustri e benemeriti. Infine, due anni fa, la rotatoria dinanzi alla nuova imponente sede del Milan – dove ieri notte in ventimila hanno atteso il bus della squadra che ritornava da Reggio Emilia – è stata dedicata a Kilpin, centoventi anni dopo la fondazione del club.
Meglio tardi che mai. Come lo scudetto numero diciannove, arrivato undici anni dopo il diciottesimo.
Ps. A proposito di un’antologia “milanista”, alla quale ho partecipato. S’intitolava Rossoneri comunque, edito da Limina. Questo il testo del lancio editoriale.
Negli ultimi due anni, anche per colpa di questa casa editrice (ndr. Limina, diretta da un interista), è stato alimentato un odioso luogo comune secondo cui gli unici tifosi intelligenti, democratici e illuminati sono (sarebbero) quelli nerazzurri. Le numerose, infinite – e, diciamolo, un po’ patetiche – sconfitte interiste hanno addirittura finito con l’essere, dai più, catalogate come un segno riconoscitivo di una fierezza stucchevole che, di fatto, finisce col compiacersi della propria vocazione alla disfatta. Una sorta di elogio stonato dei perdenti, rimasticato secondo l’ottica bauscia. In una parola: insopportabile. Rossoneri comunque – la prima antologia milanista – sfata tale odioso assioma, peraltro perpetuato dal recente (e deprecabile) Basta perdere. E dimostra, una volta per tutte, che anche i milanisti sanno andare oltre il tifo. Rossoneri comunque raccoglie la testimonianza di venticinque tifosi milanisti. I curatori sono Davide Grassi e Andrea Scanzi. Il capitano, il «10» insostituibile (men che meno da Mazzola), è Gianni Rivera. Dietro di lui, a proteggerlo, Giovanni Lodetti. In panchina, Arrigo Sacchi. Poi, in ordine alfabetico: Alessandra Bocci, Leonardo Coen, Massimo Coppola, Stefano Davidson, Franz Di Cioccio, Luca Di Giuseppe, Franz (per una volta senza Ale), Gaspare (per una volta senza Zuzzurro), Gianluca «Dejan» Gori, Michele Mari, Giulio Nascimbeni, Edoardo Nesi, Umberto Nigri, Giacomo Papi, Gian Luigi Paracchini, Giuseppe Picciano, Mauro Raimondi, Gianluca Sirri, Fabio Treves. La prefazione è di Enzo Jannacci, milanista splendido. Come Beppe Viola, al quale è dedicato il libro. Ognuno ha raccontato la sua storia, la sua follia, la sua memoria. Talora, la sua dissidenza. Rossoneri comunque è un’antologia di ricordi che spiega le ragioni, non solo affettive, del perché sia bello essere milanisti. La classe operaia va in paradiso, non certo alla Pinetina. La classe (e gli esteti) vanno a San Siro, non certo per vedere l’Inter.