“Meglio essere felici o contenti? Meglio essere contenti perché la contentezza può durare tutta la vita mentre la felicità si sa come va a finire” diceva Pulcinella-Massimo Troisi nel film Il viaggio di Capitan Fracassa. Qualche settimana fa, quando ormai il Napoli, dopo i passi falsi con Fiorentina, Roma ed Empoli, si era tirato fuori dalla lotta scudetto, ho sostenuto su queste pagine che “chi si accontenta, non vince mai”.
Mi fa rosicare, a me come a tanti tifosi azzurri, il gaudio del presidente che nel complimentarsi con il Milan per la vittoria del campionato, non manca l’occasione per autocelebrarsi perché “chiudiamo terzi con 9 punti di vantaggio sulla quarta e 15 sulla quinta, in un anno in cui eravamo partiti per tornare in Champions”.
La supercazzola prematurata al riguardo è un trattato scientifico. Perché questa era l’occasione giusta per emergere nel campionato più mediocre degli ultimi dieci anni.
Il presidente, brillante uomo di impresa da me sempre sostenuto per le sue oggettive abilità manageriali, sa benissimo che gli obiettivi, in un qualsiasi processo di pianificazione, sono definiti ad inizio esercizio sociale (qualificazione Champions) e, pertanto, se raggiunti definiscono un successo. Ma è altrettanto certo che, se nel corso dell’anno, ci si rende conto che “quegli obiettivi” erano stati sovrastimati o sottostimati rispetto alla reale portata dei risultati raggiungibili, devono essere cambiati in maniera tale da limitare (in taluni casi addirittura annullare), nel caso in cui non vengano centrati, l’enfasi e gli alibi di “quelli che si accontentano”.
Ma lui non rosica perché non è tifoso. Ottimo uomo di affari, brillante gestore di una azienda calcio, ma non tifoso. Il tifoso vuole vivere un giorno “felice” in cambio di tanti giorni di “contentezza”. Perché il tifoso è un rosicone. Il rosicone, quello che rosica per qualcosa, è colui che prova un misto di invidia, rabbia, rancore, e soprattutto impotenza. Perché a rosicare, di solito, è chi si sente ingiustamente colpito da un destino che non meritava.
Lo stesso “filosofo” Spalletti ha inizialmente accusato il colpo salvo poi ritornare sui passi dettati dalla linea societaria (meglio dire presidenziale). Un passo indietro solo formale perché è chiaro che chi rosica, si rode lentamente, nel profondo, e non riesce a darsi pace. La “rosicata” è uno stato d’animo che non si esaurisce a stretto giro, ma va avanti a lungo – proprio come la rosicchiata del topo, lunga e costante – e può durare settimane, mesi, nel calcio, poi, addirittura anni.
Mi potete rispondere che si tratta di una strategia di comunicazione per calmare la piazza delusa. Certo, se quelle esternazioni provenissero, però, da chi è sempre abbastanza equilibrato nel gestire le proprie reazioni. E non sembra che il presidente sia un esempio in tal senso.
Niente, dobbiamo accontentarci (essere contenti) di un presidente non tifoso perché la città non ha saputo esprimere una presidenza indigena che, sebbene con elevate capacità imprenditoriali e manageriali, possa essere anche tifosa. La borghesia imprenditoriale locale è un ceto che ormai vive di rendita (derivante dai patrimoni prodotti dai genitori e nonni) e non di reddito, arretrata culturalmente (parlo anche di cultura manageriale), arroccata nelle loro splendide ville collinari e che non sa interpretare la posizione di privilegio datagli dalla sorte, dedicando parte del suo tempo e delle sue sostanze a iniziative finalizzate a dotare la città di un nuovo decoro e di progetti vincenti.
E, da uomo di impresa, mi accontento.
Ma non chiedetemi di essere felice di un terzo posto con 9 punti di vantaggio sulla quarta e 15 sulla quinta, in un anno in cui “eravamo partiti per tornare in Champions”! La felicità è solo una questione di aspettative.