Mario Draghi non andrà in Senato a riferire prima del Consiglio straordinario europeo del 30 e 31 maggio sulla guerra in Ucraina e l’economia. Non solo non lo ha previsto il presidente del Consiglio, ma Palazzo Madama ha bocciato la proposta di intervento avanzata da M5s, Fdi e Alternativa. A presentare la richiesta in Aula, dopo che era stata esclusa dalla capigruppo, è stata la senatrice 5 stelle Mariolina Castellone. Il 19 maggio scorso il premier si era presentato alle Camere per un’informativa su guerra in Ucraina e invio delle armi, dopo che nelle scorse settimane proprio Giuseppe Conte e il M5s gli avevano contestato lo scarso coinvolgimento del Parlamento.
Una settimana dopo, il caso si riapre. Il presidente 5 stelle ha infatti più volte ribadito che il “mandato politico” di Draghi deve essere stabilito da Camera e Senato. Ma la decisione di strappare e avanzare la richiesta insieme alle opposizioni, apre un nuovo problema dentro la maggioranza. Innanzitutto il Carroccio è corso a giustificarsi per aver deciso di allinearsi alle richieste del premier: “Non avendo la disponibilità del presidente Draghi non possiamo votare contro il calendario”, ha dichiarato il capogruppo della Lega Massimiliano Romeo. Il leghista però non è entrato nel merito della questione, anche perché nello stesso momento Matteo Salvini, durante la registrazione di Porta a Porta, ribadiva la sua contrarietà all’invio di nuove armi: “Spero non ci sarà un altro voto” in proposito, ha detto. E ancora: “Mandare altri armi è un errore madornale che allarga il conflitto”. Intanto però, al momento di chiedere al premier di venire in Aula per spiegare, il Carroccio non ha sostenuto la richieste delle opposizioni.
Chi ha preso male la scelta del M5s è stato l’alleato Pd che, invece, difende in tutto e per tutto la scelta di Draghi: “Le comunicazioni del presidente del Consiglio sull’Ucraina”, ha detto il senatore dem Andrea Marcucci, “non possono trasformarsi ogni volta in una resa dei conti della maggioranza. Il presidente Draghi verrà naturalmente in Parlamento come è sempre venuto. Le forzature del M5s sono del tutto assurde ed ingiustificate”. Mentre il senatore Dario Stefano su Twitter ha ricordato come i 5 stelle si siano espressi contro il proprio stesso ministro: “La capogruppo del M5s insieme all’ex 5s Dessì, ora CAL-PC, hanno chiesto in Aula Senato di votare contro il calendario appena concordato in capigruppo, su proposta del ministro D’Incà, anche lui dei 5 stelle. Sembra quasi un labirinto”. Poco prima il senatore dem Luigi Zanda diceva: “Un voto non unanime della maggioranza sul calendario non è buon augurio per il prossimo futuro della maggioranza. Quindi faccio un invito alla prudenza politica”.
Secondo l’ex M5s Dessì, “la restante parte dell’emiciclo ha vinto di pochissimo, una decina di voti al massimo”, ha detto. “Si rinuncia alla sua presenza in Aula ben sapendo che, per una serie di fatti concomitanti, la prossima settimana si lavorerà solo lunedì, poi Forza Italia non ci sarà perché dovrà partecipare al voto per il presidente del Partito Popolare Europeo e la settimana dopo non ci sarà Aula perché è la settimana precedente al voto alle amministrative”. Quindi, ha concluso il senatore Dessì, “il governo non riferisce al Parlamento che si riunirà dopo 20 giorni in piena crisi economica e bellica con la pandemia che ancora lascia i suoi segni; e noi mandiamo Draghi a dire quello che vuole lui in Europa e ce ne stiamo tranquillamente a casa a farci i fatti nostri”.
I rapporti tra Draghi e il Parlamento (e i partiti) si confermano molto complicati. Giovedì scorso il premier, dopo l’informativa, ha riunito d’emergenza il Consiglio dei ministri e ha strigliato la maggioranza: ha chiesto di velocizzare l’approvazione del ddl Concorrenza, minacciando che a saltare potrebbero essere i fondi del Pnrr. Neanche 24 ore dopo ha scritto direttamente alla presidente del Senato Elisabetta Casellati perché intervenga per una calendarizzazione rapida del provvedimento: un atto del tutto inusuale che ha mostrato fino a che punto Draghi snobba partiti e il suo stesso ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D’Incà. Intanto il premier ha ottenuto quello che voleva: il provvedimento è stato calendarizzato per il 30 maggio e lui non andrà in Aula prima del vertice Ue.