L’obiettivo del ddl, in discussione al Senato, è garantire alle partite Iva retribuzioni adeguate. A favore del testo Professionitaliane e Consiglio nazionale dei commercialisti, mentre critiche arrivano da Confprofessioni e Acta. E scompaiono i 150 milioni stanziati: "La pubblica amministrazione è uno dei soggetti coinvolti: è un po' come dire facciamo la legge ma non abbiamo i soldi per sostenerne le conseguenze economiche"
Deve garantire alle partite Iva e al variegato mondo delle autonomi retribuzioni adeguate ma, dopo aver ottenuto a ottobre il via libera della Camera, la norma sull’equo compenso, ora in discussione al Senato, si ritrova senza la copertura finanziaria rischiando di rimanere sulla carta o quantomeno di avere un effetto blando. E così il provvedimento inizia a ricevere critiche e proposte di modifiche, anche dalle associazioni di categoria che pure lo avevano proposto e caldeggiato. In seguito all’abolizione delle tariffe professionali, avvenuta nel 2012, infatti, le condizioni lavorative di chi non è assunto come dipendente sono diventate più difficili. I professionisti si sono trovati a fare i conti con un mercato del lavoro meno regolamentato, nel quale gioca un ruolo preponderante la concorrenza, spesso al ribasso, sui salari. Senza considerare lo squilibrio di forze tra gli autonomi e i clienti di grandi dimensioni per i quali lavorano. Il più delle volte, infatti, sono questi ultimi a dettare le proprie condizioni contrattuali. A tutto questo il disegno di legge sull’equo compenso cerca di porre un argine. Un argine che, però, appare piuttosto ballerino.
Le critiche al progetto sono arrivate dalle stesse associazioni di categoria che pure lo avevano promosso. Inoltre, durante l’esame alla Camera, al provvedimento è stata tolta la copertura finanziaria da 150 milioni di euro che invece era prevista nel testo originario. Senza le somme necessarie alla sua attuazione, risulta difficile che la legge sull’equo compenso possa venire applicata concretamente. Ma andiamo con ordine. Il provvedimento, la cui approvazione definitiva appare lontana, prevede alcune novità. Innanzitutto, si rivolge a tutti quei rapporti regolati da convenzioni. Nello specifico, a essere interessati dalle nuove norme sono i professionisti che lavorano per banche, assicurazioni, pubblica amministrazione e per imprese con ricavi superiori a 10 milioni di euro o con più di 50 dipendenti. Il disegno di legge, poi, contiene un elenco di tutta una serie di clausole considerate vessatorie che, se previste, saranno da considerarsi nulle senza, però, inficiare l’intero contratto che rimane quindi valido. Per quanto riguarda il compenso, questo sarà considerato equo se coerente con i parametri fissati ogni due anni per decreto dai ministeri competenti, su proposta degli ordini professionali. Spetterà al tribunale ordinario, poi, stabilire se la retribuzione non è equa e condannare, nel caso, il cliente al versamento delle somme dovute. Infine, agli ordini professionali viene attribuita la facoltà di adottare sanzioni deontologiche nei confronti degli iscritti che hanno accettato una parcella inferiore a quanto ritenuto “equo”.
Queste le principali novità introdotte dal disegno di legge, il quale, però, ha suscitato reazioni contrastanti. Mentre alcune associazioni di categoria hanno criticato il progetto, altre invece lo hanno accolto positivamente, come Professionitaliane che chiede l’approvazione senza modifiche del provvedimento licenziato dalla Camera. In una nota, l’associazione sottolinea infatti l’urgenza di dare ai professionisti un testo “organico e completo”. Dello stesso avviso il Consiglio nazionale dei commercialisti che, pur auspicando che ne venga estesa l’applicazione a tutte le imprese e non solo quelle di grandi dimensioni, si è espresso a favore del disegno di legge. Su posizioni più critiche, invece, Confprofessioni. Per il presidente dell’associazione, Gaetano Stella, infatti il provvedimento non risponde alle esigenze dei lavoratori autonomi: “Si continua a insistere sui rapporti professionali regolati da convenzioni con banche, assicurazioni e grandi imprese, che però sono solo una parte dei clienti dei professionisti”, ha sottolineato. “Non si fa alcun riferimento ai rapporti professionali individuali, relativi cioè alle singole prestazioni, che rappresentano la maggior parte degli incarichi attribuiti dalla pubblica amministrazione ai professionisti e che rimangono fuori dal campo di applicazione della legge”.
Una proposta alternativa al provvedimento è stata poi presentata da Acta, associazione che riunisce in modo trasversale tutti i lavoratori indipendenti. “Il disegno di legge è stato presentato come una soluzione universalistica ma in realtà andando a leggere il testo fa veramente poco” per gli autonomi, spiega l’avvocato e membro del consiglio direttivo di Acta, Silvia Santilli. Per chi è iscritto a un ordine professionale, inoltre, il provvedimento non contiene particolari novità, ma si limita a ribadire il diritto all’equo compenso, già introdotto nel 2017, e a prevedere la nullità delle clausole contrattuali che sanciscono retribuzioni inferiori. Per chi invece non fa parte di un ordine professionale, allo stato attuale, l’equo compenso non esiste. “Vorremmo avere un po’ più di certezza e di vincoli sulla quantificazione sulla congruità del compenso”, sottolinea Santilli. Anche perché, mentre per gli iscritti agli ordini professionali ci sono dei parametri di legge che stabiliscono come si determina l’ammontare della retribuzione, per tutti gli altri lavoratori questo non avviene. Si tratta insomma di una situazione che genera una disparità di trattamento.
“La nostra proposta è di istituire un meccanismo di aggancio alle retribuzioni previste dai contratti collettivi per mansioni analoghe – spiega Santilli – con una maggiorazione del 20% dal momento che il libero professionista deve farsi carico di tutti gli oneri contributivi oltre ad essere esposto agli alti e bassi della libera professione”. Ma anche l’efficacia delle tutele previste dal disegno di legge lascia a desiderare, a suo avviso. “Il nostro auspicio è che anche gli autonomi possano adire il tribunale del lavoro e beneficiare quindi di un rito più snello con tempistiche più veloci”, prosegue Santilli. Si tratta di un procedimento riservato solo ai lavoratori subordinati ma che, con il Jobs act del 2017, è stato esteso anche ai collaboratori coordinati e continuativi, i famosi co.co.co. Un allargamento della platea di chi può ricorrere al tribunale del lavoro, spiegano da Acta, sarebbe pertanto possibile. Il punto principale su cui insiste l’associazione è però l’estensione dell’equo compenso a tutti i lavoratori autonomi e non solo a quelli che hanno contratti con grandi aziende, come prevede invece il disegno di legge.
Va ricordato, tuttavia, che il tema è molto delicato. Il sistema dell’equo compenso non può essere una riedizione dei minimi tariffari in vigore fino al 2012. Una soluzione simile sarebbe infatti in contrasto con la legge sulla concorrenza e con la normativa europea che equipara i lavoratori autonomi agli imprenditori. “Per questo si preferisce parlare di soglia di equità – prosegue Santilli – che poi è un principio sancito dall’articolo 36 della Carta, la quale non distingue tra lavoratori subordinati e autonomi”. Insomma, la tutela della retribuzione “ha anche una radice costituzionale”. Va poi considerata la proliferazione delle diverse forme di lavoro atipico che si è avuta negli ultimi anni. Secondo Santilli “ormai è talmente diffuso il ricorso al lavoro autonomo in ogni genere di mansione che pensare solo agli appartenenti agli ordini è limitante e non al passo con la realtà sociale”. D’altra parte, il testo, dopo il passaggio alla Camera, non ha più copertura finanziaria: “Siccome la pubblica amministrazione è uno dei soggetti coinvolti ci potrebbe essere un maggior costo a carico dello Stato: è un po’ come dire facciamo la legge ma poi non abbiamo i soldi per sostenerne le conseguenze economiche”, conclude Santilli.