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le Iene, Alberto Stasi: “Io innocente, finito in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola”

Alberto Stasi parla con Le Iene dal carcere milanese di Bollate dove sta scontando una condanna a sedici anni per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi, uccisa a 26 anni, il 13 agosto 2007, nella sua villetta di Garlasco, in provincia di Pavia

di F. Q.

“Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi”: Alberto Stasi parla con Le Iene dal carcere milanese di Bollate dove sta scontando una condanna a sedici anni per l’omicidio della sua fidanzata Chiara Poggi, uccisa a 26 anni, il 13 agosto 2007, nella sua villetta di Garlasco, in provincia di Pavia. Una condanna arrivata dopo una lunga sequela di processi. Inizialmente assolto in primo grado e in appello, la Cassazione annullò la sentenza e poi in un nuovo processo d’appello fu condannato a 16 anni (con lo sconto per il rito abbreviato), decisione infine confermata dalla Suprema Corte nel 2015. “Quando mi chiedono se ho ucciso io Chiara, penso che non sanno di cosa stanno parlando – dice Stasi nella lunga intervista che andrà in onda questa sera su Italia 1 -. Nell’immaginario comune un innocente in carcere è un qualcuno che soffre all’ennesima potenza. Per me non lo è, semplicemente perché la mia coscienza è leggera. Alla sera quando mi corico io non ho nulla da rimproverarmi. Certo, ti senti privato di una parte di vita perché togliere la libertà a una persona innocente è violenza, però non hai nulla da rimproverarti, l’hai subita e basta, non è colpa tua”.

Sembrava di remare contro un fiume in piena andando controcorrente, fin dall’inizio: una volta lo scambio dei pedali, un’altra volta il test solo presuntivo, e l’alibi che mi viene cancellato, l’orario della morte che viene spostato. Non c’era desiderio di cercare la verità perché una volta può accadere, la seconda volta può passare, ma non possono esserci una terza, una quarta, una quinta, per sette anni. Che verità c’è in tutto questo?”, si chiede il 38enne, che all’epoca del delitto aveva 24 anni.

Ripercorrendo le diverse fasi processuali, “io – ricorda Stasi – sono stato assolto in primo grado, sono stato assolto in appello, sull’unica condanna il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ha chiaramente detto ‘Non si può condannare Alberto Stasi’, quindi, in Italia hanno un sistema che a oggi funziona così: la pubblica accusa dice ‘No, questa persona va assolta’ ma, nonostante questo, la persona viene condannata”. Durante il primo interrogatorio, prosegue “ero spaventato ma anche abbastanza sereno, quella tranquillità di chi ha la convinzione di potere chiarire le cose. In quella notte l’accertamento era preliminare, puoi anche aspettare quello definitivo, perché hai fretta di portare in carcere una persona sulla base di un risultato ancora parziale? Non c’era motivo ma il meccanismo si era messo in moto: era stato emesso un provvedimento, i carabinieri erano arrivati, i giornalisti erano già fuori dalla caserma, mandare tutti a casa, in qualche modo, credo dispiacesse, e quindi venni accompagnato in carcere. Quando fui scarcerato dopo quattro giorni, con un’ordinanza del giudice che smontava punto per punto quel provvedimento assurdo – continua -, il direttore (del carcere di Vigevano, ndr.) mi disse ‘Arrivederci fuori, spero che vada a dire in giro che l’abbiamo trattata bene’. È come se in quel momento la cosa più importante fosse solo avere il proprio ruolo a posto, non il fatto che una persona di 24 anni veniva portata in carcere. Lui era, in qualche modo, custode della mia persona però l’interesse doveva essere forse tutt’altro, non questo”.

“Sono passati 15 anni ma in quegli anni i Ris di Parma era un po’mitizzati. La sera la gente guardava la televisione e li vedeva risolvere i delitti più complicati nel tempo di un episodio. Scoprire che in realtà le persone venivano portate in carcere sulla base di test che non distinguevano il sangue da una barbabietola, illuminava una situazione che si pensava diversa. Ecco perché dico che quel momento fu come un punto di non ritorno: non si trattava più di svolgere un’indagine ma si trattava di salvare la propria carriera, la propria reputazione. Questo poi ha comportato tutta una serie di conseguenze di inezie, di incapacità di tornare indietro, non so se mi spiego. Per ammettere i propri sbagli bisogna avere coraggio, carattere. Il pm non è mai andato a dire ‘Questo provvedimento era prematuro’, perché poi l’accertamento definitivo risultava, appunto, negativo”. Oggi “ho 38 anni e ho in mente di mettere a frutto tutte le esperienze negative che ho vissuto, un bagaglio conoscitivo che non può essere acquisito diversamente. Certe cose non le puoi metabolizzare se non le vivi. Se hai la fortuna, o sfortuna, a seconda del punto di vista, di vivere certe esperienze, acquisisci degli strumenti che puoi mettere a disposizione e io voglio fare questo. È un impegno diverso rispetto a quello che potevo desiderare quando avevo 24 anni, in cui volevo fare carriera nell’azienda più grande d’Italia, tanto per fare un esempio”, conclude.

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