Il concetto di successo non coincide necessariamente con quello di vittoria. Perché anche le sconfitte possono avere un loro fascino abbacinante. Un paradosso che racchiude alla perfezione tutta l’essenza di Walter Sabatini, l’uomo che è riuscito a scrivere il proprio capolavoro al termine di una sconfitta per quattro a zero contro l’Udinese. Per di più in casa. Perché la salvezza della Salernitana è qualcosa di illogico e trascendentale, quasi mistico. Una pagina di fantascienza che nel corso dei mesi si è trasformata prima in cronaca e poi in storia da tramandare, poema omerico pronto a diventare patrimonio condiviso. Un’impresa che ha il suo eroe in Davide Nicola, il Re Mida capace di tramutare le cause perse in salvezze. Ma il suo demiurgo è Walter Sabatini, uno che per il calcio italiano è tante cose e tutte insieme.
Un po’ eminenza grigia, un po’ sciamano, un po’ rabdomante del talento, un po’ compratore compulsivo. La sua figura luciferina si presenta il 17 gennaio annunciando sei colpi. Solo che poi si fa prendere la mano e ne chiude addirittura undici in otto giorni. “Ho fatto tutte le operazioni che volevo. Ha prevalso il mio leggendario buco di culo”, dirà. La lista degli acquisti sembra uscita da un discount più che da una boutique. È tutta gente che altrove gioca poco, che è finita ai margini in cerca di un’occasione di riscatto: Sepe, Mazzocchi, Dragusin, Bohinen, Radovanovic, Verdi, Mikael, Mousset. Più un’armata Brancaleone che una falange oplitica. Fazio e Perotti portano un tocco di revival, ricordano fasti della carriera di un ds che ora sembra vivere nell’atmosfera decadente di un libro di Hemingway.
Il colpo viene dal Brasile. Sabatini lo paga addirittura sei milioni e mezzo per portarlo via dal Corinthians. “Ho agganciato questo Ederson – racconterà qualche tempo dopo – un giocatore di 22 anni che presto andrà a fare la mezzala in un grande club”. Ed è vero. La squadra che ha sempre stazionato all’ultimo posto della classifica inizia ad arrampicarsi lentamente. Così per Sabatini Salerno diventa approdo sicuro dopo una serie di passaggi a vuoto. “Sono un uomo tardivamente felice – confida in un’intervista a Giancarlo Dotto – Io adoro essere amato e qui mi sento amatissimo, senza riserve, senza distinguo”. La salvezza diventa obiettivo concreto e simbolico, personale e condiviso al tempo stesso. Perché per non finire ai margini, Sabatini ha bisogno della sua ennesima prestidigitazione, del colpo a effetto. “Ammetto candidamente di vivere una situazione di terrore, non sono abituato all’idea di retrocedere. Sarebbe un episodio nefasto e mortifero”, spiega. È un concetto che diventa ancora più chiaro nelle parole che pronuncia a DAZN dopo la salvezza conquistata domenica sera: “Questa è la mia miglior performance, che mi legittima a continuare”.
È una frase che racconta indirettamente una fragilità, che fa intravedere il tunnel in fondo alle luci della ribalta. Smettere per Sabatini sarebbe stato comunque impossibile. Perché per lui il calcio non è né un lavoro né una passione. È un’ossessione permanente, un altare al quale votare la propria vita. Totalmente. La scintilla scocca all’età di 9 anni. Suo nonno lavora alla fornace di Marsciano e non ha mai seguito molto il calcio. Eppure pronuncia un nome e un cognome che cambieranno la vita di suo nipote. Walter decide di fermarsi davanti alla televisione per guardare quel Gianni Rivera di cui si parla così tanto. “Abbandonai i miei giochi di indiani e cowboy – ha raccontato a Massimo Cecchini – da quel momento pensai solo al pallone”. È da lì che parte la sua parabola. Sabatini diventa una promettente ala destra. I suoi piedi sono affilati, la testa non ancora. “Ero un calciatore cerebralmente limitato e tecnicamente formidabile”, dirà. La seconda svolta della sua vita arriva mentre gioca con il Perugia.
Nello spogliatoio arriva Paolo Sollier, l’attaccante con un rapporto complicato con il gol e una cultura fuori dal comune. Un giorno chiama da parte Walter e gli regala un libro. Si intitola Cent’anni di solitudine. E forgerà per sempre il carattere di Sabatini. Capisce che la sua cultura scolastica non basta più, che deve andare oltre. Diventa lettore accanito, diventa perfezionista ossessivo. La sua anima inizia a essere affascinata dall’idea di autodistruzione. È l’unico modo che conosce per portare a termine la sua affermazione. Deve sapere più degli altri, deve arrivare prima degli altri. Nel calcio. Ma anche nella vita. Il suo eloquio è più ermetico che forbito. E contribuisce a creare un’aurea mitologica intorno alla sua figura. Al resto ci pensa il primo grande fallimento della sua vita. Nel 1998 è il direttore sportivo dell’Arezzo. Prima salva la squadra, poi la porta in Serie B. È un idillio che dura poco. Nel novembre del 1999 la Repubblica pubblica una bomba. È la storia di un quattordicenne della Costa D’Avorio, Dungani Fusini, che era arrivato in Italia per sostenere un provino con l’Arezzo ma che poi sarebbe stato “abbandonato al proprio destino”. Qualcuno giura di averlo visto raccogliere i pomodori nel casertano insieme allo zio, altri di averlo visto “denutrito e fragilino”.
L’accusa è chiara: l’Arezzo avrebbe violato le norme sui trasferimenti dei minorenni extracomunitari. Si parla di “mercanti di bambini”, qualcuno utilizza addirittura il termine “negriero”. Sabatini di difende: “Abbiamo sottoposto Fusini a una verifica tecnica su richiesta del suo procuratore“. Il ds viene squalificato per un anno e mezzo. Sabatini ricorre in appello. E le cose precipitano. La pena viene aumentata a cinque anni. E viene aggiunta la richiesta di radiazione. È una proposta che la FIGC lascia cadere. Almeno fino al 2003, quando non decide di ratificarla. Dopo sei mesi arriva la retromarcia. La Federcalcio cancella la radiazione per “l’irragionevolezza del tempo trascorso fra la proposta e la ratifica”. È un incubo che si diluisce in sogno. “Grazie alla squalifica sono diventato bravo – racconterà alla Gazzetta – vedevo 18 ore di calcio al giorno, tenevo gli occhi aperti con gli spilli per non dormire, conoscevo qualsiasi calciatore al mondo”. La passione è diventata ufficialmente assillo.
La sua vita diventa un eccesso costante. Fuma minimo due pacchetti di sigarette al giorno, beve 15 caffè. Vede calcio in rotazione. E quando non lo fa intavola trattative parallele. Per comprare un giocatore ne tratta otto contemporaneamente. Vita e morte iniziano ad andare di pari passo. Andare avanti vuol dire camminare su un filo sospeso fra le due condizioni. In ogni sua intervista sembra di ascoltare quella canzone degli Afterhours che dice “la vita è un suicidio”. Nel vero senso della parola. “Io mi suicido tutti i giorni – racconterà in un’intervista – ho sempre avuto poco rispetto della mia vita. Prima per una sorta di adorazione nelle mie capacità psicofisiche. Pensavo di poter fare tutto e lo penso ancora oggi, tant’è che sono un suicida senza successo”. E ancora, nel 2018: “Sono stato più volte vicino a morire. Una su tutte, quattro anni fa. Faccio il solito controllo da sofferenza respiratoria, trovano noduli nei polmoni e anche uno sulla spalla. Sembrano maligni. Probabile metastasi. Ho invitato quattro volte a cena mia moglie per dirglielo, senza riuscirci. Mi sono operato a Padova e sono andato in terapia intensiva con l’iPad perché giocava la Roma contro il Torino. Gol di Florenzi al 92°. Vedevo solo ombre, ma capii che la Roma aveva vinto”.
Un climax ascendente che si conclude con una frase rilasciata nel 2019 al Secolo XIX: “Ero in coma. Ho visto il paradiso, sembrava un supermercato”. È una frase perfettamente in linea per uno che ha passato tutta la vita a comprare giocatori. La lista dei calciatori presi a poco e rivenduti a tantissimo è infinita. Il colpo che gli ha dato più soddisfazione risale ai tempi della Roma: “È Marquinhos. Franco Baldini cercò di boicottare l’operazione. Lo fecero passare per uno troppo magro, fisicamente inadeguato. Non sapendo che avevo già concluso l’affare”. Lazio, Palermo, Inter, Sampdoria e Bologna le tappe più importanti della sua carriera. Eppure la Roma è un capitolo a parte, il fantasma che ancora torna a fargli visita di tanto in tanto: “Ho un’insana gelosia verso la Roma, perché odio il non essere lì, per dirla senza retorica. Penso alla Roma come a una meravigliosa donna perduta, sono geloso della Roma non posso negarlo. Solo che la gelosia quando è esagerata è insana”. Ora però a Salerno è iniziata l’ennesima nuova esistenza di Sabatini, una nuova corsa a perdifiato nell’autodistruzione. D’altra parte lo diceva anche Cesare Pavese: “È un gioco rischioso prender parte alla vita”.