La prima banca italiana ha importanti investimenti anche nell'industria degli idrocarburi russi. Eppure, grazie ad alcune iniziative, la banca riesce a dare un'immagine di sé come gruppo attento al clima e impegnato nella lotta all'inquinamento
Intesa Sanpaolo, primo gruppo bancario italiano, tra il 2020 e il 2021 ha finanziato i settori del carbone, del petrolio e del gas con 9 miliardi di dollari. Di questi, 6,4 miliardi nel solo 2021: un incremento del 146% rispetto all’anno precedente. È quanto emerge da un rapporto realizzato da ReCommon, “associazione associazione che lotta contro gli abusi di potere e il saccheggio dei territori”. Sul fronte del carbone, il più inquinante dei combustibili fossili, l’esposizione è stata trainata soprattutto dalla sottoscrizione di obbligazioni, sestuplicata tra il 2020 e il 2021. Una modalità di finanziamento tra le meno regolate, dal momento che le società dell’industria fossile possono impiegare i proventi legati ai bond per scopi generici, il più delle volte il proprio core business. Tra questi finanziamenti spiccano i 226 milioni di dollari alla tedesca Rwe, la multinazionale dell’energia più inquinante d’Europa, in cui Intesa Sanpaolo è anche il primo investitore italiano con 135 milioni di dollari. Per quanto riguarda il settore petrolio e gas, tra il 2016 e il 2021 il gruppo bancario italiano ha erogato 5,5 miliardi di dollari a sei delle otto società che stanno espandendo il proprio business fossile, secondo la Global Oil and Gas Exit List della ONG urgewald8, ovvero : Chevron, Exxon, Equinor, Gazprom, Shell e Total. Ed è solo la punta dell’iceberg.
Oltre a essere la “banca fossile numero 1 in Italia” per il suo mix di operazioni creditizie e investimenti nel settore, Intesa Sanpaolo è quella con le relazioni più strette con Mosca, curando tutti i principali investimenti italiani in Russia e viceversa. Tra il 2016 e il 2021, i finanziamenti concessi all’industria fossile russa ammontano a 4,9 miliardi di dollari. Di questi, 2,9 miliardi alla sola Gazprom, principale società energetica controllata dallo Stato. Questi numeri sono il risultato della relazione speciale tra Intesa Sanpaolo e la Federazione russa, che risale alla privatizzazione del colosso energetico russo Rosneft, avvenuta nel periodo 2016-2017. All’epoca, il gruppo finanziario italiano fece da consulente al processo di transizione nonostante sulla società gravassero le sanzioni statunitensi, in seguito all’annessione della Crimea da parte della Russia. Inoltre, Intesa stanziò 5,2 miliardi di dollari per facilitare l’acquisizione del 19,5% di Rosneft da parte di un consorzio formato da Glencore e Qatar Investment Authority.
In attesa di capire che cosa sarà degli interessi in Russia di Intesa Sanpaolo, la banca risulta esposta anche negli Stati Uniti. Il gas che arriva in Europa dagli Usa è prodotto prevalentemente nel Permian Basin, attraverso l’utilizzo di pratiche ultra-invasive come il fracking o la trivellazione orizzontale. Si stima che, fra il 2020 e il 2050, la combustione di tutte le riserve di petrolio e gas del Permian Basin possa produrre l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2: una vera e propria ‘bomba climatica’. Nel business dal gas made in USA, scrive ReCommon, la banca italian è già ben posizionata – in primis sul fronte dei terminal per l’export: tra il 2016 e il 2021 ha concesso infatti prestiti per 1,9 miliardi di dollari alle multinazionali maggiormente coinvolte nella produzione e trasporto di petrolio e gas del Permian Basin. Di questi, 830 milioni di dollari per progetti di gas naturale liquefatto (GNL) che arriva in Europa.
Eppure, grazie agli aiuti che rivolge alle comunità colpite da “eventi atmosferici straordinari”, al sostegno alla “Green e Circular Economy” e al recente annuncio di voler contribuire al Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con 400 miliardi di euro, il gruppo è riuscito a fare breccia nell’immaginario collettivo come banca sostenibile e al servizio dei territori. Niente di più distante dalla realtà. “Chiediamo che Intesa Sanpaolo implementi un piano di fuoriuscita da tutto il settore carbonifero, che smetta di finanziare progetti fossili nella Regione artica e che inizi a disinvestire da tutte quelle società che ora, mentre parliamo, stanno espandendo il proprio business fossile. Inoltre, chiediamo al gruppo di chiudere immediatamente ogni relazione con l’industria fossile russa”, commentano Simone Ogno e Daniela Finamore di ReCommon, autori del rapporto.