Cultura

Lo Scaffale dei Libri, la nostra rubrica letteraria: diamo i voti a “Paradais” di Melchor, “Fine dei giochi” di Gucci, “Terrarossa” di Genisi e Crossroads di Franzen

di Davide Turrini e Ilaria Mauri

Per il Grande Romanzo Americano bisogna aspettare ancora un po’. Crossroads di Jonathan Franzen (Einaudi) solletica l’archetipo impossibile (diciamo attorno alle 100-120 pagine) ma poi crolla clamorosamente nella solita stratificazione descrittiva del nostro, il proustismo senza madeleine per intenderci, ancora una volta immerso in una saga familiare, quella degli Hildebrandt di New Prospect, Chicago, tra Natale e Pasqua del 1971. Non fatevi ingannare però, dalla scelta “libertaria” dell’ambientazione di quegli anni, perché il senso politico vasto e generale del racconto latita dalla prima all’ultima pagina (vi prego non citate i navajo e l’industrializzazione dei bianchi perché nemmeno alle scuole medie). La comunità protestante che Franzen dipinge attorno al pastore Russ, alla moglie Marion e ai loro quattro figli (Clem, studente universitario indeciso se farsi soldato in Vietnam e poi lavoratore itinerante in Sud America; Becky, introversa e brillante ragazza che ama un chitarrista della chiesa; l’adolescente Perry, tasto dolente, tossico, microcriminale e inascoltato; e il piccolo Judson) è letteralmente e umanamente inesistente. Seicento e quasi trenta pagine di Crossroads (nome del gruppo giovanile protestante che organizza con successo il più giovane pastore Ambrose facendo andare su tutte le furie Russ) sono in realtà orientate con la testa e con l’anima in quel minimalismo spicciolo da classico senso di colpa franzeniano (abbiamo Marco Missiroli in Italia che con Fedeltà è andato ben più in profondità sul tema, per dire). Mettici i riformisti protestanti, o mettici le onde del destino della vita atea, il risultato non cambia: l’uomo frustrato, non proprio fallito, ma inquieto per qualcosa che a livello esistenziale non si compie come presumibilmente dovuto (qui Russ ha avuto solo un’unica donna con cui ha fatto sesso, la moglie Marion, e quindi si lascia andare all’attrazione per la parrocchiana Frances) vorrebbe cambiare, tradire, godere, e intanto mantenere lavoro e famiglia come erano prima. Non c’è lacerazione trascendente che tenga, però. Tutto in Crossroads, il romanzo, non il gruppo giovanile della parrocchia alquanto pallido nel libro, spinge all’ancoraggio generico da sentimentalismo rosé sia che ad “accoppiarsi” o “tradire” siano gli adulti o gli adolescenti. A livello stilistico Franzen propone quasi allo sfinimento quella sua descrittività pleonastica che scivola nei corsivi allusivi da ricettario (nel frattempo), in briciole polliciniane di psicanalisi (Io e Super Io citati, Ego non pervenuto), concentrata e avviluppata in questo scavare lontano nel passato biografico dei singoli protagonisti adulti (la divisione in chilometrici capitoli per ogni protagonista familiare è così banalmente reiterata da lasciare interdetti) per una spiegazione umana e psicologica che più ci si avvicina più sfugge quasi che non ne esista definitivamente significativa traccia. Si salva quello sguardo ironico sui personaggi – almeno nelle prime 400 pagine – rispetto a quelle che appunto paiono frivole debolezze ma che poi dovrebbero assumere a forza, senza riuscirci mai, valore palingenetico. Voto: 6- – – (sei meno meno meno).

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