Recep Tayyip Erdoğan lo ha già deciso e comunicato pochi giorni fa ai vertici della Nato: per ottenere il suo via libera all’adesione di Svezia e Finlandia, gli Stati membri dovranno sacrificare i curdi del Rojava, nel nord-est della Siria. Nelle ore passate, però, al termine di una riunione di gabinetto ha dichiarato pubblicamente: “Presto faremo nuovi passi riguardo alle porzioni non ancora completate del progetto che abbiamo avviato per la formazione di una zona di sicurezza profonda 30 chilometri sul nostro confine meridionale”, ha detto riferendosi ai territori curdi che di fatto ha inglobato dopo il ritiro delle truppe della coalizione anti-Isis e con il benestare dell’allora presidente americano Donald Trump. Così, dopo aver incassato il riconoscimento delle proprie “preoccupazioni per la sicurezza al confine” da parte del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, e del portavoce del Dipartimento di Stato americano, Ned Price, che si è comunque detto “preoccupato” dalla prospettiva di una nuova operazione militare, oggi il presidente turco ha ricevuto le delegazioni di Svezia e Finlandia per cercare di raggiungere un accordo sulla loro entrata nell’Alleanza.
Per il momento, come annunciato dal portavoce del presidente, Ibrahim Kalin, in conferenza stampa, nessun accordo è stato trovato con i due Paesi scandinavi, anche se il dialogo continuerà, con la Turchia che chiede loro di fermare il sostegno a gruppi considerati da Ankara terroristici per sostenere la candidatura nell’Alleanza Atlantica.
Sacrificare i curdi, alleati della cosiddetta coalizione occidentale che ha sconfitto il Califfato in Siria e Iraq, non è mai sembrato un problema per gli ex amici delle popolazioni che vivono nel nord-est siriano. Proprio in favore di Erdogan quei territori sono stati abbandonati senza adeguate garanzie, lasciando campo libero all’esercito di Ankara, sostenuto anche da elementi provenienti dalla galassia jihadista locale, sia legata ad al-Qaeda che allo Stato Islamico, che così si è ‘mangiato’ ampie fette di terreno, cacciando, torturando e uccidendo le popolazioni locali, come successo ad Afrin e in altre città e villaggi.
In questo caso, però, Price ha comunque espresso preoccupazione per i piani di Erdogan affermando che qualsiasi nuova offensiva nel nord della Siria minerebbe la stabilità regionale e metterebbe a rischio le truppe statunitensi (circa 900 quelle rimaste dal 2014): “Siamo profondamente preoccupati per i rapporti e le discussioni sul potenziale aumento dell’attività militare nel nord della Siria e, in particolare, per il suo impatto sulla popolazione civile locale”, ha affermato il portavoce poco dopo le dichiarazioni del leader di Ankara. Anche se ha poi precisato che come Stati Uniti “riconosciamo le legittime preoccupazioni per la sicurezza della Turchia al confine meridionale, ma qualsiasi nuova offensiva minerebbe ulteriormente la stabilità regionale e metterebbe a rischio le forze statunitensi e la campagna della coalizione contro l’Isis”.
Anche perché in quei territori non opera, almeno ufficialmente, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk) considerato un’organizzazione terroristica da Turchia, Usa e anche Unione europea. Nel nord-est della Siria operano le Unità di Protezione Popolare (Ypg/Ypj) curdo-siriane, le stesse che hanno rappresentato la ‘fanteria’ della coalizione, che ha invece contribuito alla guerra contro lo Stato Islamico soprattutto con l’aviazione, andando a recuperare piano piano tutti i territori in mano alle Bandiere Nere, combattendo casa per casa nelle ultime roccaforti islamiste sacrificando migliaia di giovani combattenti. Ma per Ankara rimangono dei terroristi tanto quanto i membri del Pkk.